“La guida galattica per autostoppisti incontra le porte della percezione ed insieme scrivono un pezzo tuttora in voga”
Piero, mio carissimo amico
L’educazione sentimentale di un cretino è la storia di Domenico Cantalamessa, detto Mimmo. Domenico prova a imparare a rapportarsi con le donne, ma è un percorso lisergico, fatto di allucinazioni, proiezioni astrali, amici immaginari e allergie alimentari. Non è un romanzo tranquillo ma è un romanzo bello.
Questa pagina serve per il business, cioè per far venir voglia agli editori di pubblicarmi. Qui sotto c’è il primo capitolo, e poi ancora più sotto c’è il soggetto completo.
CAPITOLO 1
Domenico Cantalamessa è un cretino. E lo sa, ovviamente lo sa. Ogni tanto riesce a distrarsi, tiene la mente impegnata e passa dei bei momenti di oblio, dimentico di se stesso e della cruda realtà. Ma serve molta disciplina, e basta una piccola distrazione per far tornare il solito pensiero: caro Mimmo, sei un cretino. Succede anche adesso, in questo preciso momento.
Domenico sta spremendo dei limoni. È nella cucina di casa sua, un appartamento che puoi essere generoso e definirlo: spartano. Oppure puoi essere meno generoso e dire che è un appartamento sciapo, amorfo, tiepidino. Non brutto, perché essere brutti è già qualcosa. Un appartamento che trasuda mediocrità, un appartamento spiritualmente beige, un appartamento di quelli che quando l’agente immobiliare cerca di vendertelo ci tiene molto a dirti: potrai personalizzarlo. E ti dà di gomito, e ti fa l’occhiolino, e ti lascia intendere che tu non sei come il vecchio proprietario, che proprio non aveva carattere, quello là.
Ma Domenico Cantalamessa il carattere ce l’avrebbe anche, e una sua identità, e un suo gusto. Non per forza buon gusto. Per dire, va matto per i luchadores, gli eroi della lotta libera messicana. C’è qualcosa nel vedere degli uomini mascherati e seminudi, lucidi d’olio e avvolti in costumi improbabili, due omoni foderati di lycra che si saltano addosso, furiosi, roboanti, arrabbiati, ecco c’è qualcosa nella lotta libera che lo smuove. Ogni qualche mese considera di comprare: poster, statuine, merchandising. Ha anche messo gli occhi su una maschera, e si potrebbe anche dire che è una maschera non-brutta, si potrebbe anche dire che dato il genere e il catalogo Domenico è finito per considerare una maschera non-terribile, non-troppo-pacchiana, una maschera un po’ vecchio stile, tutta argentata, che come tutte le maschere da luchador copre l’intera testa e la trasforma in un grande uovo, una palla liscia senza orecchie e senza capelli. Ma tanto non la comprerà, ovviamente non la comprerà. Non compra mai niente e resta rintanato nella scusa che poi non saprebbe che farci, che sarebbero soldi buttati. Che con una maschera da luchador addosso si sentirebbe ancora più cretino.
Ma torniamo a oggi: Domenico sta spremendo dei limoni. È in cucina, seduto al suo tavolo bianco e pulito e mediocre, e davanti a lui c’è una cassetta di legno di quelle da mercato ortofrutticolo piena per metà di limoni. Il resto del tavolo è ingombro di bottigliette di plastica da mezzo litro, alcune già piene di succo di limone, altre ancora da riempire. Domenico indossa una tuta grigia, di quelle felpate, una tuta che fa già i pallini da quanto è vecchia, e delle ciabatte da casa con fantasia a losanghe rosse e blu. A terra lì accanto c’è il secchio dell’immondizia mezzo pieno di bucce svuotate.
Afferra un limone, afferra il coltello, taglia il limone appoggiandosi in equilibrio alla cuspide dello spremiagrumi elettrico, e poi procede a spremere con metodo le due metà, prima una e poi l’altra. Lo spremiagrumi è un modello semplice ma di straordinaria intelligenza: quando ci appoggi sopra il frutto l’apparecchio si attiva con un ronzio meccanico e la cuspide inizia a girare su se stessa. A Domenico piace molto: è stato un acquisto azzardato, gli è costato molte ore di valutazione, ripensamenti, confronto tra modelli. Alla fine si è deciso, ha fatto l’ordine online, poi l’ha disdetto, poi l’ha rifatto e alla fine lo spremiagrumi è arrivato. Ecco qua. È molto contento.
La cucina è invasa dal ronzio elettrico dell’apparecchio, non c’è musica, e Domenico compie il grave errore di rilassarsi. Perde la concentrazione, smette di tenere l’attenzione sulle sue mani, sull’operazione meccanica, sull’immediato, compie insomma il solito errore e la sua mente finisce nei soliti posti. Caro Mimmo, sei un cretino. Ecco qua.
Peraltro, questo diminutivo, Mimmo. Domenico lo detesta. Gli pare volgare, confidenziale, gli lascia in bocca una patina oleosa che sa di truffa, ogni volta che qualcuno lo chiama Mimmo lui vorrebbe rispondere in tono aggressivo, oh, ma chi sei? chi ti conosce? come ti permetti? Vorrebbe invocare il suo luchador interiore e gettare un furente grido di battaglia. Ma non lo fa, ovviamente non lo fa, e anzi non ha mai chiesto a nessuno di smetterla di chiamarlo Mimmo, per favore. Ogni volta che sente il diminutivo si limita a fare una minuscola, impercettibile smorfia, un sorriso tirato che dura un secondo virgola quattro, precisissimo. È quindi naturale che quando Domenico indulge nel rituale dell’insultare se stesso lo fa chiamandosi con l’odiato soprannome. In fondo con qualcuno deve pur prendersela. Caro Mimmo, sei un cretino.
Tra il ronzio dello spremiagrumi e la litania dei pensieri Domenico finisce per distrarsi e, fatalmente, non sente i passi nella tromba delle scale che preannunciano l’avvicinarsi del pericolo. Non si accorge di nulla finché non è troppo tardi: suonano alla porta. D’istinto, Domenico ferma l’operazione di spremitura, e poi ricomincia a darsi del cretino: chiunque sia il nemico ora si è accorto che lui si è accorto. Nel panico, ricomincia a schiacciare il limone sullo spremiagrumi, ma lo schiaccia troppo forte e la buccia gli si spacca in mano, la mano gli si inzacchera e d’istinto la ritrae e lo spremiagrumi tace di nuovo. Domenico si blocca. Trattiene anche il respiro. Va bene, il nemico è alla porta. Va bene, si è accorto che lui si è accorto. Ma non è ancora entrato. Domenico può ancora salvarsi. Forse non insisterà. Forse il nemico andrà via.
Suonano ancora.
Qua dobbiamo fare un passo indietro. Domenico non è un misantropo e non è un recluso, ha un lavoro, un abbonamento in palestra, uno per il cinema, una tessera per gli sconti al supermercato. Non è una vita orribile, anche se lui stesso ammetterebbe, sotto lieve tortura, che la sua vita potrebbe migliorare. Perché è, in primo luogo, un’esistenza fragile, basata su un delicato equilibrio sempre sul punto di crollare. Le minacce principali sono due, cioè due categorie di persone che riescono sempre a mandarlo nel panico: gli sconosciuti e le donne. Per una semplice legge delle intersezioni le donne sconosciute rappresentano quindi il nemico più feroce, la sorgente ultima di ogni panico.
Domenico cola fuori dalla sedia e inizia a strisciare lentissimo verso la porta d’ingresso. A questo punto non gli interessa che il visitatore abbia capito che lui ha sentito. Non gli interessa risultare maleducato. Non gli interessa nulla: è guerra. Il piano è semplice: vuole guardare dallo spioncino e valutare l’entità della minaccia. Se è uno sconosciuto, magari, in qualche modo, potrebbe trovare il coraggio di aprire la porta. Almeno socchiuderla. Capire cosa vuole.
Se è una persona nota, anche una donna, via, purché sia qualcuno di familiare, ecco Domenico potrebbe spingersi addirittura a farli entrare, scusarsi per il disordine, dire che l’hanno trovato durante una per niente sospetta operazione di spremitura. Ma se, per un caso disperato, per un crudele scherzo del destino che non vuole neanche immaginare, ecco, se alla porta ci fosse una donna ignota…
Due. Sono due donne, e Domenico non le conosce. È arrivato alla porta muovendosi come un paramecio, ha ruotato il coperchio dello spioncino con mano sudaticcia e piena di limone, ha accostato l’occhio con cautela, speranza, timore, ed ecco qua: due donne sconosciute. Il cuore gli cade sotto i piedi.
È una situazione che merita un ventaglio di emozioni del tutto nuove, non adatte allo spirito umano. Domenico non prova paura, ansia, terrore. Domenico non prova panico. No, lui prova ULTRAPANICO. In senso letterale, dal latino ultra, ultera: che è oltre. Oltre il panico. La lancetta del suo stato emotivo sbatte contro il fondo scala. Le due donne, sul pianerottolo, sentono un rumore acutissimo e molto fastidioso, come un fischietto per cani, come il verso di certi pipistrelli. Sono i denti di Domenico digrignati a 17.3 kiloHertz, precisissimi.
Le due donne. Innocue predicatrici di una religione di salvezza, la più giovane ha trentadue anni, grinta, talento retorico. Farà strada nella setta, diventerà un giorno supervisore della cellula locale. Non potrà ambire a posizioni di maggior prestigio: è una donna, solo gli uomini possono accedere agli incarichi regionali, e poi su, su, fino ai vertici. Lotterà per accettare che giusto così, che è l’ordine delle cose, e si convincerà di aver raggiunto un qualche tipo di pace. Non sarà vero.
L’altra è più anziana, cinquantun anni e un nervo sciatico che le dà il tormento. Le lunghe giornate di proselitismo porta a porta non dovrebbero più essere affar suo, nella setta gode di specchiata fama e ha provato più e più volte la sua buona coscienza. Potrebbe ottenere con facilità altri incarichi, ma è una cosa che le è sempre piaciuta fare, andare di porta in porta. Non per il contatto con le persone, per carità. Trova la gente piuttosto fastidiosa, e non vede l’ora che Nostro Signore si decida di dare una bella ripulita a questa terra. Ma c’è un’altra gioia che non sa negarsi: è il piacere che prova a fine giornata, quando torna alla congregazione, stanca, con le caviglie gonfie e la schiena che la uccide. In quel momento lei si sente superiore alla marmaglia con cui ha avuto a che fare per tutto il giorno. Più prende porte in faccia, più la insultano, più a sera si sente santa e gonfia di spirito divino. E farlo con gli acciacchi dell’età? Ancora più che santa. ULTRASANTA.
Le due donne hanno un aspetto sobrio ma non castigato. Indossano entrambe la gonna, quella giovane sotto il ginocchio, quella anziana alla caviglia. Camicia bianca una, tailleur grigio l’altra. Niente orecchini, un sottilissimo filo d’oro attorno a un collo, una spilla rotonda con dentro una minuscola croce d’argento. Due belle facce. Domenico suda.
Domenico suda perché non sa come parlare alle donne. Gli piacciono le donne, tantissimo, e forse è quello il problema, che gli piacciono troppo. Riesce a individuare in entrambe un atomo di bellezza, e quella bellezza lo stende. Nella più anziana vede la pelle del collo che sta sfiorendo, segnata dal tempo, e questo dettaglio intravisto allo spioncino già lo fa innamorare: Domenico si chiede quante storie possa raccontare quella pelle, immagina la donna spruzzasi il collo di uno sbuffo di profumo dato con pudore, quasi di nascosto, le labbra incurvate da un piccolo sorriso imbarazzato mentre si concede quella minuscola frivolezza.
Domenico vede la mano dell’altra donna, quella più giovane, la vede come al rallentatore mentre si aggiusta una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Nota un graffio, sottile e arrossato, si immagina la donna mentre gioca col gatto, mentre lo riempie di coccole fino a infastidirlo, fino a prendersi una graffiata. Immagina di essere lui, quel gatto. Immagina le coccole.
Le donne capiscono che c’è qualcuno dietro la porta, ma decidono che non è il caso di insistere. La più anziana sbuffa, la più giovane si china e infila un opuscolo sotto la porta. Sopra c’è un disegno di Nostro Signore Gesù Cristo nella sua rappresentazione di uomo bello, biondo, dalla carnagione chiara e con gli occhi azzurri. Il tipico mediorientale. Poi le donne si voltano e si allontanano. Da dietro la porta Domenico le osserva, guarda le loro schiene, i loro glutei, i polpacci della giovane sono torniti dalle marce del proselitismo. Poi abbassa il coperchio dello spioncino. Fa un grosso sospiro. Caro Mimmo, sei un cretino.
SOGGETTO (pieno di spoiler, ovviamente)
Domenico non è davvero un cretino, ma si considera tale perché la sua vita è costellata da nevrosi, ansie e blocchi emotivi, e non potendosela prendere con altri se la prende con se stesso. È comunque un personaggio attivo, e al posto di piangersi addosso prova ad aggirare gli ostacoli che la sua stessa mente gli mette davanti. Di solito lo fa escogitando complessi piani che gli permetterebbero, in teoria, di sopravvivere a se stesso, ma che in pratica gli portano altri guai.
La storia si apre con Domenico innamorato di Margherita, una donna che non ha mai incontrato. Margherita è la proprietaria della Stalla Divina, un ristorante incentrato su soli prodotti caseari di latte esotico, mozzarelle di yak, ricotte di moffetta, cose così. Domenico non ha mai visto Margherita di persona perché il contatto dal vivo è troppo intenso per lui, ma ha visto una sua foto sul giornale locale e tanto gli è bastato. Ha quindi deciso che andrà alla Stalla Divina, ordinerà dei formaggi e proverà ad attaccare bottone. C’è il piccolo problema che Domenico è intollerante al lattosio – un’intolleranza senza diagnosi ufficiale, perché tra le altre cose ha paura di medici, aghi, e di tutti gli ammennicoli ospedalieri.
In qualche modo il piano prende l’abbrivio, Domenico si informa su quali formaggi contengano meno lattosio e prepara grandi dosi di succo di limone da bere di nascosto per contenere eventuali problemi gastrici. La situazione ovviamente gli sfugge di mano e Domenico finisce per intossicarsi, e l’avvelenamento è anzi così grave che inizia ad allucinare. In particolare, Domenico inizia a vedere il Cannibale, cioè il principale coprotagonista del romanzo, che funge da mentore per il suo viaggio dell’eroe. Il Cannibale parla per battute taglienti e humour nero, e spinge Domenico ad affrontare delle prove che, a suo dire, gli permetteranno di diventare un uomo migliore.
L’arrivo del Cannibale sancisce anche un cambio di scenario. Finora le vicende si sono svolte in una quieta cittadina della pianura padana, con i suoi parchetti violentati dall’amministrazione pubblica e la sua gara podistica per dilettanti a disturbarne i pomeriggi sonnacchiosi.
Con il Cannibale l’azione si sposta a bordo di un grande treno astrale, un mezzo di trasporto trascendente che viaggia nello spazio frattale e senza forma con il suo carico di passeggeri umani e disumani. Domenico, che non è davvero un cretino, mangia la foglia e capisce che forse sta davvero allucinando, e che forse niente di tutto quello che vede è reale. Però l’infelicità che prova nella sua vita “normale” è vera, e la promessa di un cambiamento è troppo allettante per essere ignorata. Dopo qualche tentennamento iniziale Domenico decide di stare al gioco e vedere dove lo porta il viaggio.
Per salire a bordo del treno Domenico deve affrontare il Guardiano, entità astrale che prende la forma di don Luigi Rampazzi, uno dei peggiori nemici d’infanzia di Domenico. Attraverso dei flashback assistiamo a due episodi di sofferenza infantile: l’ordalia di fare la pipì in spiaggia e la grande ansia della torta di compleanno. Qui il lettore capisce che ci sono dei motivi validi per cui Domenico è poi cresciuto pieno di nevrosi.
I flashback non sono però fini a se stessi ma hanno un preciso motivo di trama: il Guardiano don Luigi si nutre delle insicurezze di Domenico, che richiamandole alla mente lo rende più forte. Come sempre nella sua vita Domenico affronta lo scontro in maniera obliqua, senza davvero battere il Guardiano ma riuscendo a superarlo con l’ingegno – e prendendo in contropiede lo stesso Cannibale, che si aspettava un fallimento.
Una volta saliti a bordo del treno astrale il Cannibale porta Domenico al vagone della prima prova, che a suo dire gli insegnerà la prima cosa di cui Domenico ha bisogno nel campo delle relazioni sentimentali: come lasciare una fidanzata. Domenico è proiettato in una visione in cui lui e Margherita stanno assieme da qualche anno, hanno una loro casa e, all’apparenza, una vita felice. Appare però chiaro che la crisi serpeggia sotterranea, e che anzi sia giunto il momento di interrompere la relazione.
Domenico esce dalla visione molto turbato, ma il Cannibale insiste nel dire che è stato un passo necessario: bisogna sapere quando tagliare. Domenico, pur non essendo del tutto convinto da questa teoria, accetta di proseguire.
Il Cannibale porta Domenico ad affrontare una seconda prova (una questione morale sulla monogamia e il poliamore) e una terza (il problema di quando due persone si amano ma non funzionano bene a letto). Ogni prova ha anche un Maestro, più o meno onirico, più o meno metaforico.
Ci sarebbe una quarta prova a cui il Cannibale vorrebbe sottoporre Domenico: il rifiuto. Domenico deve imparare ad essere rifiutato, perché prendere qualche porta in faccia tempra il carattere e fa accettare che non abbiamo il controllo della realtà attorno a noi.
Questo sarebbe il piano del Cannibale, ma a questo punto le cose vanno storte: i due si separano e Domenico viene accostato dal Cowboy, un collega del Cannibale che però ha un approccio diametralmente opposto alle relazioni. Il Cowboy vuole fare di tutto perché Domenico non soffra, e ha anzi intenzione di insegnargli come sedurre le donne con distacco, seguendo un piano preciso e senza farsi troppo coinvolgere dai sentimenti. Il Cowboy parla sempre per metafore country, si riferisce alle ragazze come a puledre da domare o a bestiame da marchiare, e si rivolge a Domenico chiamandolo ragazzo o partner.
Quando Domenico accetta l’aiuto del Cowboy si ritrova a ballare la quadriglia in un vagone saloon del grande treno astrale. Il Cowboy gli suggerisce all’orecchio come comportarsi per approcciare Margherita, e seguendo il copione che gli viene dettato Domenico riesce a conquistarla, salvo rendersi conto di non essere stato davvero lui a sedurla: ha interpretato un personaggio, e quel personaggio ha avuto successo. A questo punto irrompe in scena il Cannibale, che si lancia contro il Cowboy come una furia. Nello scontro Domenico viene ferito e la scena sembra avviata verso il collasso, quando Cowboy e Cannibale vengono richiamati all’ordine da Mama Luna, uno dei controllori del treno, che è anche la proprietaria del saloon.
La storia sembra volgere al termine. Cowboy e Cannibale vengono cazziati, e Mama Luna ingiunge loro di riportare Domenico alla sua realtà – ovvero di farlo svegliare, sperando che si dimentichi di tutto quanto o pensi che sia solo stato un sogno. I tre, mestamente, si apprestano ad affrontare il viaggio di ritorno. Mentre aspettano che il treno giunga alla fermata si evidenzia la natura contrastante dei due coprotagonisti. Il Cannibale è emotività, esperienza del mondo attraverso cuore e istinto, e crede che il dolore sia il filtro attraverso cui imparare. Il Cowboy è razionalità, anche egoista, anche crudele, ma è motivato da una volontà chiara: vuole che Domenico non soffra.
L’ultimo prova è fronteggiare di nuovo il Guardiano. Durante il viaggio Domenico ha capito le regole del mondo onirico che sta attraversando e riesce quindi a dettare i termini dello scontro: sarà un incontro di lucha libre, il wrestling messicano, di cui Domenico è grande fan. Tutto sembra avviato a concludersi, salvo che Domenico riesce ancora una volta a sfuggire: si rende conto che non ha davvero affrontato i propri demoni e che il suo viaggio non è davvero completo. Lascia quindi Cowboy e Cannibale a gestire i luchadores e torna sul treno, dove riesce a organizzarsi per “affrontare le sue paure, tutte e tutte assieme”. Si ritrova in un vagone ospedaliero, dove una Margherita in versione infermieristica inizia a trafiggergli il corpo di aghi e a ingozzarlo di latte mentre gli fa sapere che nessuno mai lo amerà e che tutti starebbero meglio senza di lui. La scena si carica ulteriormente di tensione quando Domenico, nel panico più totale, si rende conto che Margherita vuole fare sesso con lui, e che lui non sarà mai in grado di soddisfarla.
Intanto Cowboy e Cannibale cercano di temporeggiare davanti al Guardian Sagrado, declinazione messicana del Guardiano, che sta per sancire la chiusura dell’arena e il conseguente imprigionamento di Domenico. Si intuisce che se Domenico non torna in se stesso perderà il senno, per sempre intrappolato a bordo del treno astrale. Lo scontro è impari e i due sono crudamente battuti davanti agli occhi increduli del pubblico, sedicimila astanti giunti all’arena per vedere El Cretino, il loro beniamino, e ora costretti ad assistere al trionfo del suo acerrimo nemico. Proprio quando le cose stanno per precipitare Domenico riappare sul ring.
Segue un turbine di mosse dai nomi roboanti, angelito, cavernaria, tirabuzòn. Domenico combatte, lo scontro è difficile, e gli si presenta l’occasione di scappare. Esattamente come all’andata, potrebbe fuggire dall’arena, superare la prova senza avere davvero battuto il nemico e tornare alla vita di prima. Ma ora le cose sono finalmente cambiate, e Domenico decide di affrontare l’avversario di petto. Il pubblico cantilena il suo nome, EL-CRE-TI-NO-EL-CRE-TI-NO, e in un climax pieno di muscoli, costumi di lycra e maschere colorate Domenico batte l’avversario. Per la prima volta nella sua vita è vittorioso.
Il romanzo si chiude con un breve epilogo. Domenico si sveglia in ospedale, Margherita è al suo capezzale. Lei gli chiede perché abbia fatto quello che ha fatto, rischiando di morire intossicandosi con il latte. Lui si scusa confessando, col sorriso, di essere un cretino.
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Lo so, letta tutta assieme in una botta sola sembra un’accozzaglia informe, ma giuro che letta una pagina alla volta funziona bene. Cinquantunmila parole, trecentomila caratteri. Facile facile.