La bambina e Arturo

Prima parte.
Seconda parte.

La bambina indossava un abitino azzurro, era scalza, e saltava la corta. Oddio, bambina. Diciamo pubere. Diciamo quell’età lì, quella mista, quando non dovrebbero ancora suscitarti certi pensieri, ma poi si sa come vanno le cose.

La bambina saltava la corda e, così facendo, si avvicinava all’auto dove Arturo sudava e tormentava una penna e cercava di seguire gli sviluppi della missione di Latlana attraverso i fruscii e gli schiocchi del microfono. C’era cattiva ricezione.

La bambina entrò nel campo visivo dell’uomo, che come da copione aprì la bocca, incredulo. Si aspettava guardie armate, un convoglio, anche un proiettile tutto sommato non l’avrebbe stupito. Era stato messo in conto, un proiettile. Il parcheggio non pareva, invece, un parco giochi.

La bambina continuò a saltare la corda e, salto dopo salto, si avvicinava. Non era un affare fluido, si vedeva che non aveva ben chiara la dinamica, strattonava la corda, che da dietro la superava sopra la sua testa e impattava sul pavimento, davanti a lei. Poi saltava. Poi ricominciava. Ne risultava un’andatura a balzi, discontinua e lenta. Avanzava tra le auto parcheggiate, a piedi scalzi sul pavimento macchiato d’olio, ma non pareva badarci. Non pareva badare a niente, a parte la sua corda. Avanzò e avanzò e arrivò davanti al cofano dell’auto di Arturo. Lo superò. Voltò. Un altro balzo, arrivò al finestrino del guidatore. Dall’altro lato del finestrino Arturo la stava guardando, dal basso in alto, la bocca ancora aperta.

La bambina fece segno di abbassare il finestrino. Fece proprio, meccanicamente, il gesto della manovella, come nelle auto vecchissime. Guardava Arturo negli occhi, ma senza nulla che assomigliasse ad un’espressione. Poteva essere un manichino. Aveva i capelli castani raccolti in una treccia e le labbra azzurre. Arturo, non sapendo bene che fare, abbassò il finestrino e fu investito da un’ondata di freddo.

La bambina scattò, afferrò Arturo per la camicia e lo trascinò fuori dal finestrino, usando un solo braccio e strappando i cavi del microfono. Poi mollò la presa e Arturo cadde a terra carponi, un po’ stordito. Provò a scappare, confusamente, ma era tra le macchine e spaventato e, insomma, Arturo non era un uomo d’azione. Grattò il terreno, provò a rimettersi in piedi, venne afferrato per la cintura e gettato a terra, duramente. Le ginocchia gli impattarono sul cemento, Arturo emise un grido soffocato e rotolò sulla schiena.

La bambina porse la mano ad Arturo, per aiutarlo ad alzarsi. La posa e il linguaggio del corpo erano amichevoli, senza traccia di aggressività, ma il volto restava impassibile, troppo. Arturo si guardò attorno cercando una via di fuga, e sentiva di avere gli occhi spaventati di un animale in trappola. Capì che era quella, la verità. Era in trappola. Questa creatura bambiniforme poteva farlo a pezzi, il piano era saltato e per quanto ne sapeva in questo momento Latlana poteva essere morta. Ma dato che non gli avevano ancora sparato in testa, tanto valeva seguire il flusso. Arturo prese la mano della bambina e si alzò in piedi. I pantaloni erano sporchi e strappati sulle ginocchia, e lui si era graffiato le mani. Le mani della bambina erano freddissime.

La bambina lo condusse con dolcezza fino ad un ascensore. Premette il pulsante, la cabina arrivò, entrarono. La bambina non toccò nessuno dei pulsanti, ma direttamente un piccolo pannello nero. Le porte si chiusero e l’ascensore iniziò la sua salita.

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