EXPL 29: c’è un bambino nella lobby

Questo posto, dopo anni di malgoverno, corruzione, politicanti incapaci e/o in malafede ed una sempre crescente forbice tra povera gente e gente straricca ha deciso di prendere una decisione drastica. Il nemico, che si voleva battere a priori e senza possibilità di appello, si chiama fortuna: nascere in una famiglia borghese o di ricchi industriali o di operai al confine della miseria è un evento fortuito, non ha niente a che fare con il valore dell’uomo, con il suo impegno, con la sua capacità di essere un membro valido della società. Eppure ha un’influenza grandissima: i ricchi avranno figli ricchi, i poveri avranno figli poveri. Ci sono eccezioni, tendenze e cambiamenti, ma la sostanza resta quella: non ci può essere giustizia sociale se una certa famiglia può permettersi di mandare il proprio rampollo a ripetizioni appena i suoi voti a scuola sono meno che ottimi, mentre un’altra è costretta a mandarlo a lavorare il prima possibile, e magari quando non si potrebbe ancora, pur di portare a casa qualche soldo. L’istituto stesso della famiglia è intrinsecamente ingiusto, dicevano i locali, e come tale è stato abolito.

All’inizio la cosa ha funzionato bene. I figli sono stati sottratti alle famiglie e messi in istituti dove hanno ricevuto tutti lo stesso livello di istruzione, di cure, di vestiti. Il cambio di impostazione è stato un po’ traumatico, con qualche morto e qualche violenza, ma poi ci si abitua a tutto. Presto la gente ha smesso di considerare l’amore filiale come parte delle loro vite, chi accettava di fare figli lo faceva per amore della nazione, per senso del dovere, o semplicemente per retribuzione (dato il violento calo delle nascite).
Il tanto agognato effetto normalizzante c’è stato: le dinastie – impegnate in politica, in affari, nell’amministrazione dei capitali pubblici e privati in un abbraccio vischioso e indistricabile – sono andate a svanire. Anche qui, con qualche lotta, qualche morto, ma alla fine soccombendo.
Per dieci anni circa si è vissuto un momento di ideale, onesta utopia: tutti erano uguali (per legge), a tutti venivano date le stesse opportunità (poche), e ogni cittadino sapeva che i suoi successi (e fallimenti) erano solo merito suo e di nessun altro. I suicidi centuplicarono.
Poi le cose cambiarono. “Il nostro è un mestiere difficile. Non ha senso per uno studente impararlo, se non sarà la sua professione. E non ha senso per noi insegnarlo, se quello non sarà il nostro apprendista. Dobbiamo prendere giovani promettenti e formarli, ottimamente, sotto l’egida dell’occhio esperto di noi più anziani. Già che ci siamo, diamoci un nome e una sede, via.”
Oggi i giovani promettenti vengono scelti dalle corporazioni. Ovviamente le corporazioni più ricche scelgono per prime, hanno le strutture migliori e i migliori insegnanti. E corporazioni in gara sono spinte a scegliere sempre prima: gli individui più talentuosi vengono prelevati all’età di quattro anni, per gli altri l’adozione avviene attorno agli otto. Si crea, ovviamente, senso di appartenenza: chi entra a far parte di una corporazione sente di esserselo meritato. Chi finisce in corporazioni di terza o quarta classe è considerato pigro, membro meno valevole della società, e quando questi ultimi alzano la voce e chiedono di cambiare le cose vengono sminuiti, respinti e boicottati. Tutti sono uguali per legge, a tutti vengono date le stesse possibilità, non c’è proprio di che lamentarsi. È un mondo perfetto.    

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