Lettere da Malu Malu #18: tra sassi e legno e oceano

GIORNO 57

Luminosissimo maestro,

molte volte in questa spedizione mi sono trovato a scrivere i miei resoconti in gran fretta, rincorrendo gli eventi che sempre rischiavano di accumularsi e confondersi. Ho cercato sempre un equilibrio tra il desiderio di raccontarvi ogni dettaglio e l’impossibilità di riportare su carta quello che può forse essere compreso solo con l’esperienza diretta, fisica e dolorosa. E anche ora, con queste ultime righe che mi trovo a scrivervi, mi sento diviso, quasi io fossi uno di quei poveri condannati a morte che hanno braccia e gambe tirate da cavalli resi furiosi dalle frustate del boia. Vorrei dirvi tutto e vorrei sintetizzare, vorrei proporvi una narrazione distaccata e vorrei inondarvi di pensieri, emozioni, sensazioni, tutto l’armamentario della vita così come l’ho esperita qui, tra sassi e legno e oceano. Più di tutto vorrei non smettere mai di parlare, perché quando avrò vergato l’ultima parola, quando sarà il momento di sigillare questi miei scritti, questa storia sarà compiuta, e altro non potrà essere detto. Questa è la mia ultima lettera.

Ma permettetemi un passo indietro. Ho scritto la mia lettera precedente anche per schiarirmi le idee e mettere un po’ d’ordine in quanto successo negli ultimi giorni. Ed è servito: terminato il resoconto mi è parso di avere messo almeno un po’ d’ordine e di essere pronto ad affrontare il compito davanti a me. Nell’immediato, e dal punto di vista pratico, dovevo fronteggiare Franco dell’Orso. Lo trovai nel cassero, disperato, immerso tra le carte del capitano Tirso. Quando entrai mi sorrise e volle stringermi la mano, un gesto che interpretai come di forzata convivialità. Senza dubbio l’enormità di quanto compiuto stava iniziando a rodere la sua corazza, e da mezze parole e certe sue espressioni compresi che si rammaricava per il sangue versato.

“Ma sei stato tu, con queste tue mani, a sventrare il capitano davanti agli occhi di tutti”, gli chiesi, incredulo per quel cambiamento d’umore.
“Sì, mastro mago”, mi rispose con voce stanca, “e non compatisco il destino di Tirso. Egli l’ha cercato per sé, umiliando e ferendo ogni marinaio timorato di dio su questa nave. Eppure…” e qui lasciò cadere le parole, quasi che preferisse non dare voce a qualche dubbio che gli rodeva lo spirito. Incalzai, lui fu titubante, ma alla fine cedette, da ultimo felice di poter parlare con qualcuno.

“Troppo, è stato troppo. Non desideravo ucciderlo, e non in quel modo. Non era quello il piano e poi Tirso ci serviva. Questo”, indicò con un gesto del braccio l’ammasso scomposto di strumenti nautici e mappe che giaceva sullo stretto tavolino, “questo è un disastro. Lo sapevamo che ci saremmo trovati in difficoltà, e non avevo motivo di fare quello che ho fatto. L’ho fatto con gusto, mastro mago, e ancora il mio cuore esulta al ricordo della lama che entra in quel ventre grasso, ma non dovevo. Non so cosa mi abbia preso.”

Immaginate, se potete, luminosissimo maestro, immaginate quest’uomo, Franco dell’Orso, un omone dalla barba scura e la voce profonda, con le braccia coperte di cicatrici e la prestanza fisica che ben si confà al suo patronimico, immaginatelo scosso e affranto, mentre ancora prova a far mostra di un sorriso tirato. Il controllo gli sta scivolando tra le dita, è a corto di uomini, non sa leggere le carte, tornato in patria rischierà la galera o la forca, e ora si chiede se per caso non abbia sbagliato a uccidere Tirso davanti a tutti, con gran crudeltà. Si chiede cosa gli abbia preso.

Vedete anche voi l’anomalia?

Certo che la vedete, se ci sono arrivato io con la mia modesta comprensione del mondo e con la mia sterminata ignoranza dell’Arte per voi deve essere una burla, questione di poco conto, quasi offensiva nella sua semplicità. Franco dell’Orso si chiede cosa lo abbia preso, e non sa rispondersi, ma io sì, fatalmente, io lo so. È stata l’isola.

Lo scrivo con riluttanza, come immaginerete, poiché scrivere queste parole significa accettare anche solo in parte le teorie eretiche di maestro Filippo. Non è stata l’isola. Un’isola non può nulla, se non stare, passiva, nel luogo assegnatole sulla carta geografica. L’isola è un mucchio di sassi e pietra lavica e nient’altro. Eppure.

L’idea mi è odiosa, ma devo intrattenerla per amore di indagine intellettuale. Diciamo che ora cerco di immaginare cosa mi direbbe maestro Filippo. Egli, probabilmente con il solito tono sardonico, mi direbbe che è stata l’isola a spingere gli uomini gli uni contro gli altri. È stata lei a fomentare gli animi, a renderli imprudenti, sanguigni, cattivi. Se io gli avessi chiesto il perché maestro Filippo non mi avrebbe risposto, si sarebbe nascosto dietro ai suoi silenzi altezzosi. Ma se leggo le carte scellerate che ho ritrovato nella sua cuccetta, se compio questa grande mancanza di rispetto e violo la sua intimità e mi gonfio di superbia e provo a immaginare non ciò che maestro Filippo mi avrebbe detto ma ciò che avrebbe pensato, ecco che la risposta è chiara. Egli credeva che l’isola ce l’avesse con lui, che tutto quanto, le provocazioni, il sangue, gli attacchi, tutto fosse finalizzato a catturarlo. Ucciderlo o peggio. Egli sentiva di essere la chiave di volta.

Posso pensarlo anch’io?

No, ovviamente no. Ma non ho altre idee, mi mancano conoscenza e potere. Egli avrebbe sostenuto che l’ammutinamento fosse stato orchestrato con sottigliezza dall’isola, per indebolirci e metterci gli uni contro gli altri. Alle mie domande incalzanti egli avrebbe risposto con una scrollata di spalle, o con delle risposte disarmanti, che avrebbero allargato ancora di più il baratro della sua eresia.

“Come ha fatto l’isola a influenzare così tanti uomini?”, gli avrei chiesto, “E senza che ce ne accorgessimo, né io né voi, maestro Filippo? E senza che i nostri parapneumi dessero segno di attività?”

“L’acqua. L’acqua e i pesci”, mi avrebbe detto. O così immagino io, perché in certe sue carte ho letto che egli pensava che l’acqua dolce di cui ci siamo riforniti, provvidenziale e piovuta generosa dalle cascate di Malu Malu, e quegli stessi pesci che in gran numero hanno riempito reti e lenze della ciurma, tutti questi doni egli pensava portassero una goccia di quello stesso veleno di cui erano intrise le liane. “Curcumello, Ragno e Palavietto avevano preso una dose intera, e concentrata”, avrebbe detto, “a tutta gli altri è arrivata diluita, attraverso i giorni.”

In verità egli non avrebbe mai nominato i tre marinai, della cui vita teneva poco conto, ma io non ho cuore di riscrivere l’epiteto negativo che egli ha usato per riferirsi a quegli sfortunati. Questo il senso, dunque. Egli riteneva che l’isola ci avesse tutti avvelenato, e che l’avesse fatto per arrivare a lui. Ecco spiegato il cambio d’umore di Franco dell’Orso, ecco perché una volta allontanatosi, e di molto, dall’isola, la sua coscienza si sia svegliata dal lungo sonno. Questo direbbe maestro Filippo.

“E gli albatros?”, avrei ancora potuto chiedere. I grandi uccelli che solcano il cielo sopra Malu Malu avevano mostrato un comportamento strano, intelligente e insieme colmo di malizia. “Guardie, occhi e orecchie di Malu Malu. Sull’isola l’uomo è schiavo, e lo spirito comanda. Rispondi, asino, quando sono arrivati gli uccelli?” Qui mi sarei fermato a pensare e poi avrei risposto che in entrambi i casi in cui li ho incontrati qualcuno stava Comandando, prima io, poi lui. “Esatto, cane, esatto”, avrebbe chiosato, gettandomi nello sconforto.

Come vedete, luminosissimo maestro, le teorie di maestro Filippo hanno una coerenza interna, ed egli certamente sapeva sopperire a ciò che non comprendeva con grande inventiva, trovando e adattando di volta in volta una nuovo dettaglio, una nuova coincidenza a cui aggrapparsi, uscendo senza vergogna dall’ortodossia del Canone pur di confermare le proprie idee.

Ecco quindi un primo desiderio: confermare la falsità di quanto sostenuto da maestro Filippo, per dimostrare che le sue teorie fossero morte con lui.

V’era poi altro. Non ho vergogna di confessare che mi sentissi in colpa per aver abbandonato sull’isola Mercionnio e Giusmo. Il primo mi è sempre stato fedele, e anche amico, e sebbene anche lui avesse partecipato alla congiura degli ammutinati ha avuto a cuore il mio benessere e ha agito per difendermi, per quanto in suo potere. Il secondo è stato avvelenato dalle liane e ha resistito, e ora si trova abbandonato, inchiodato su quella stessa isola che già una volta ha cercato di farlo suo. E allora a cosa è servita la sua tempra? A cosa la sua vittoria? È ingiusto. Abbandonare quegli uomini era ingiusto, ed era anche una questione personale. Potevo finalmente fare qualcosa per spostare, anche se di poco, il tremendo bilancio di questa spedizione. Era quindi mio dovere farlo. Ecco il mio secondo desiderio: salvare i due marinai abbandonati sulle spiagge rocciose di Malu Malu.

E poi c’era una terza motivazione, più sfuggente, più difficile da trasmettervi a parole. Sentivo che se avessimo definitivamente abbandonato l’isola, ora, non ci sarebbero più state spedizioni. Cosa stavo riportando in patria? Qualche avvistamento, qualche teoria sconclusionata, assieme a un bilancio tremendo di morti ammazzati e beni preziosi perduti. Tornare indietro, in quel momento, significava relegare Malu Malu a una nota a piè di pagina, una stranezza di poco conto con cui qualcuno era venuto in contatto in una spedizione fallita. Se fossi tornato indietro la nostra conoscenza dell’isola non sarebbe poi stata molto diversa da quella dei vecchi racconti di Lumaccio e Perdigote. Eppure sentivo di essere vicino a disvelarne il mistero. Avevo incontrato tanto, il quadro era quasi completo. Ecco il mio terzo desiderio: compiere un ultimo tentativo di esplorazione, non dichiarare sconfitta e anzi spingere. Avanzare.

Immagino con facilità la vostra critica. È fatto noto, il terzo precetto dell’Arte è pericoloso, l’orgoglio può divenire hybris, superbia, e portare il mago ad affrontare battaglie fuori dalla sua portata. Giudicherete voi, dal resto del racconto, se sono caduto in tale errore.

Per i tre motivi che vi ho detto decisi che non potevamo tornare indietro in quelle condizioni. Si trattava di convincere la ciurma – quel che ne restava – ma non mi fu poi difficile. L’ammutinamento aveva creato un vuoto di potere, e Franco dell’Orso, scosso dal rimorso, non era riuscito ancora a colmarlo. Decisi di parlargli sul ponte di maestra, davanti ad altri marinai, e dichiarai a gran voce che non potevamo abbandonare due membri della ciurma. Era una crudeltà tal quale quelle che compiva capitano Tirso, ma ora le cose erano cambiate, ed era quindi necessario un cambio di passo nelle nostre azioni. E poi due marinai in più sarebbero stati molto comodi, già così la Timorazza era quasi ingovernabile, mancavano mani.

Era una piccola trappola, e mi rammarico per Franco dell’Orso: davanti a quelle argomentazioni dirmi di no l’avrebbe fatto passare per un capo scellerato, e avrebbe minato la fiducia che gli uomini riponevano nella sua traballante autorità. Tanto più che Mercionnio era uno di loro, un cospiratore della prima ora, e nessuno si rallegrava di averlo abbandonato sull’isola. Franco dell’Orso mostrò qualche perplessità, ma quando gli garantii che non c’era più pericolo nel tornare a Malu Malu cedette, e diede disposizioni per girare la caravella. Va detto che non eravamo pronti per affrontare il lungo ritorno, bisognava fare rifornimento di pesce e acqua dolce, e magari di fasciame, e soprattutto bisognava scendere a patti col fatto che l’unico a bordo che sapesse davvero leggere le carte era Moliabre, il secondo del capitano Tirso, tuttora confinato agli arresti nella sua cuccetta. Insomma, era ragionevole prendersi tempo e fare le cose con calma.

Ovviamente non potevo davvero garantire che il ritorno all’isola sarebbe stato sicuro. Non potevo essere certo di cosa avremmo incontrato, o se fosse cambiato qualcosa durante la nostra assenza, ma in quella situazione di grande sconforto mostrarmi sicuro di me dava agli uomini un barlume di speranza, come il navigante che nella tempesta vede lontanissima la luce di un faro. Tutto si stava ribaltando e gli uomini, sperduti, erano pronti ad aggrapparsi a qualunque cosa. Anche a una menzogna.

Tornammo. La Timorazza, anche con l’equipaggio dimezzato, continuò ad essere agile e docile assieme, e solcare quei mari caldi con grazia. Finalmente vedemmo di nuovo all’orizzonte l’isola, il sasso colorato che ci ha causato così tanti guai. Era ormai il tramonto, avremmo dovuto attendere mattino per coprire l’ultimo tratto di strada, ma intanto eravamo tornati. Un punto fermo in quel mare di incertezze.

La notizia si diffuse rapida sulla nave, e inaspettatamente venni mandato a chiamare da Moliabre, il secondo. Egli era tuttora confinato nella sua cuccetta, che non si poteva certo definire una prigione, e infatti se non fosse stato per il singolo marinaio messo a fare la guardia alla sua porta si sarebbe potuto muovere liberamente. Egli, dicevo, mi mandò a chiamare quando l’isola fu in vista. Valutai di ignorare l’offerta, ero stanco e carico di preoccupazioni e non avevo fibra per aprire ulteriori fronti. Ma poi ragione ebbe la meglio e pensai che fosse giusto almeno sentire cosa aveva da dirmi. Arrivai quindi alla sua cuccetta e dissi al marinaio di guardia di andare a farsi un giro. Poi entrai.

Trovai Moliabre seduto sulla brandina che giocherellava con non so quale ninnolo, che subito nascose al mio arrivo. Mi accolse alzandosi in piedi, mostrando una certa deferenza che molto contrastava con il suo solito atteggiamento competitivo. Aveva gli occhi stanchi, cerchiati dalla preoccupazione, ma nel complesso pareva godere di buona salute. Per quanto ne sapessi durante l’ammutinamento non gli era stato torto un capello, e vista la sorte che era toccata al capitano tutto sommato poteva dirsi fortunato.

“Mi hai mandato a chiamare, Moliabre. Eccomi qui”, dissi cercando di mantenere un tono neutro. Non sapevo cosa aspettarmi e più di tutto volevo che la questione finisse in fretta. La sua risposta, però, mi stupì.

“Portatemi con voi, mastro mago”, mi disse. “Stiamo tornando indietro, e immagino che vogliate tornare in Malu Malu. Portatemi con voi.”

Vidi attraverso la sua debole maschera e scoprii un uomo disperato. Egli temeva per la sua vita, e faceva del suo meglio per nascondere il suo profondo turbamento, ma la voce gli tremava ed era chiaro che stava ricorrendo a misure disperate. Mi fece una gran pena.

“Vuoi scappare, Moliabre”, gli dissi affrontando la questione di petto. “Temi che Franco dell’Orso e gli altri ti getteranno a mare, intero o magari aperto nel ventre come hanno fatto col capitano, e a quel destino preferisci tentare la fortuna e rifugiarti sull’isola. Ho indovinato?”

Moliabre distolse lo sguardo. Avevo colto nel segno. Tornò a parlarmi, ma senza guardarmi. Aveva gli occhi fissi sulla piccolissima feritoia che dava luce alla cuccetta.

“So di essere necessario, ora. Nessuno sa leggere le carte, a bordo, e le mie capacità di navigatore aiuterebbero di molto il ritorno. Ma prima o poi arriveremo in vista di una costa, una qualunque, e in quel momento diventerei una zavorra. Sono un ufficiale della marina regia, per quanto disperato, per quanto di poco conto. Potrei accusare tutti, potrei farli appendere alla forca. No, non mi terranno in vita. Ho visto la spietatezza di quegli uomini, ho visto il sangue e le budella di Tirso. Sono bestie, non posso fidarmi.”

 Evitai di dirgli che la sete di sangue di Franco dell’Orso era ormai evaporata, e invece giocai con la mia posizione di potere. Chiesi un compenso. Perché avrei dovuto aiutarlo, cosa ci guadagnavo?

Moliabre mi stupì una seconda volta. Si alzò, avvicinandosi ancora di più alla feritoia da cui trapelava la luce morente del tramonto, poi si voltò. “Credo che siate interessato a questo”, disse, e poi estrasse di tasca il ninnolo che aveva in mano quando entrai nella sua cuccetta. Lo riconobbi subito, era l’uovo dei serpenti e della guarigione, che era stato rubato. Realizzai che in effetti egli era a bordo quando nascosi l’uovo nella lanterna. Doveva avere origliato, per caso o per malizia, la mia conversazione con maestro Filippo, quando attraverso la porta della sua cuccetta gli spiegavo dove avevo riposto l’uovo. Feci per avvicinarmi ma egli subito mise la mano fuori dalla feritoia. 

“Fate un passo, mastro mago, e questa pietra finisce in acqua. Non so esattamente cosa ci facciate con questi gioielli, ma ho visto la gran cura con cui Filippo ve ne ha dato uno. Per voi è molto importante, io non me ne faccio niente. Trattiamo.”

Trattammo. Moliabre voleva un passaggio per l’isola, io volevo l’uovo. Volevo anche che Moliabre restasse sulla Timorazza, e collaborasse con la ciurma, e aiutasse la navigazione, ma comprendevo le sue paure: egli rappresentava il vecchio potere, sempre odioso al nuovo.

Considerai di ingannarlo. Potevo, certo, fingere di accettare le sue condizioni e organizzare il trasferimento sull’isola, e poi quando fosse stato nel corridoio, lontano da feritoie, finestre e altre aperture, ordinare agli uomini di sopraffarlo, perquisirlo, prendere l’uovo con la forza. Ma a cosa sarebbe servito? Non avrei certo ammansito il suo animo, dopo un tiro del genere non potevo aspettarmi che collaborasse con Franco dell’Orso. Anzi, si sarebbe senza dubbio incattivito al punto da rappresentare un pericolo. Sentendosi in trappola avrebbe potuto fare qualcosa di terribile, appiccare un incendio, assalire le guardie, portare altro sangue. E in ogni caso sarebbe finito ammazzato. No, non era quella la via. Accettai lo scambio. Egli era consapevole del rischio a cui si sottoponeva, in qualche modo era costretto a credere alla mia parola e farsela bastare, giacché non potevo dargli altre rassicurazioni. Forse per disperazione, o forse per la fiducia che riponeva nel mio onore, acconsentì e ci accordammo: egli mi avrebbe seguito, il giorno dopo, quando fossi sceso sulla terra ferma.

Venne la sera e mi portò molti pensieri. Sentivo una grande responsabilità nei confronti di tutto, della ciurma, dell’Arte, e anche di me stesso. Fino all’ammutinamento in qualche modo potevo nascondermi dietro l’idea che in fondo il mio ruolo fosse limitato, che io fossi solo l’assistente di maestro Filippo. Ora non più, ora ero io il sapiente. Ci si aspettava che le mie decisioni fossero sagge e ponderate. Luminosissime. Io ero – dovevo essere – il bastione che ci difendeva dalla barbarie, sempre strisciante, sempre pronta a prendere il sopravvento, come l’ammutinamento aveva dolorosamente dimostrato. Se è questo il fardello che portate ogni giorno, maestro, non provo invidia per voi. Passai una notte eccitata e agitata, e a mattino fui in piedi prima dell’aurora. L’isola, avvolta dalla foschia, giaceva immobile all’orizzonte.

La ciurma si svegliò e coprimmo con rapidità il tratto di mare rimanente, a sufficienza per tornare a vedere quelle coste che ci erano divenute così familiari. Eppure fu subito chiaro che c’era qualcosa di strano. L’isola sembrava come diversa, come un disegno fatto a memoria senza il modello davanti agli occhi. Un dettaglio di non poco conto confermò quelle mie impressioni: l’istmo era sparito. 

Ricorderete che l’istmo era stato il nostro punto d’appoggio, quel breve tratto di rocce emerse che ci avevano consentito di attraccare, fare campo e lanciare le prime esplorazioni dell’isola. Ebbene, quella lingua di scogli era sparita. O meglio, si era inabissata. Con l’occhio inchiodato al cannocchiale mi sforzai di trovare conferma a quell’ipotesi, fino a quando non mi parve di vedere, attraverso la trasparenza dell’acqua, le tracce di quelle stesse rocce, che ora giacevano completamente sommerse. Ogni qualche minuto, quando nel loro gioco le onde si muovevano nella giusta maniera, capitava che spuntasse ancora un pinnacolo di roccia, subito circondato di schiuma e poi coperto dalle acque. Mi parve addirittura in un momento di veder sporgere la bocca di fuoco della nostra bombarda, che con gran fatica avevamo trascinato a riva e posizionato su un piccolo promontorio. Compresi in quel momento la ragione delle molte conchiglie e scheletri di pesci che giacevano su quelle rocce al nostro arrivo. L’istmo aveva la capacità di immergersi e poi tornare ad affiorare, governato da chissà quali moti sotterranei. L’isola è di origine vulcanica, e tali sommovimenti non sono del tutto straordinari. Certo, nelle orecchie avevo ancora le farneticazioni di maestro Filippo, che nelle sue note parlava proprio di questo, dell’istmo che un giorno si sarebbe inabissato, e che proprio per la paura di annegare aveva rifiutato categoricamente di mettere tenda sull’isola. Ma egli poi rovinava questa sua straordinaria intuizione farcendola di eresia, dichiarando che quella passerella di terra è a disposizione dello spirito di Malu Malu, che può offrire o ritrarre un punto d’attracco per disporre al meglio dei visitatori. Farneticazioni, vedete bene.

Appena mi accorsi della sparizione dell’istmo subito fui preso da una grande angoscia per il destino di Mercionnio e Giusmo, abbandonati lì assieme al resto del campo. Scrutai meglio, con la Timorazza che onda dopo onda si avvicinava all’isola e mi permetteva di scorgere maggiori dettagli. Vidi resti di teli e paleria sbattuti contro la parete rocciosa dell’isola, certamente resti di tende ora sradicate dalla forza dell’acqua. Vidi altre cose galleggiare, una gamella, una scarpa, tutte indicazioni dell’avvenuto allagamento, ultime tracce della nostra presenza destinate a sparire nei prossimi giorni. E non vidi uomini. Il cuore mi cadde nello stomaco e, con ansia, iniziai a esaminare la costa rocciosa di Malu Malu, e la sua cima, dove il verde della foresta si sostituisce al porpora della scogliera. Le piante giacevano immobili, un muro compatto e impenetrabile, che al mio occhio non fornivano indizi del passaggio recente dei marinai abbandonati. La foresta sembrava anzi tornata alla condizione incontaminata in cui l’avevamo trovata al nostro arrivo. Dell’incendio che io stesso avevo appiccato non v’era più alcuna traccia. E c’era dell’altro: non vidi neppure la corda che tanto faticosamente avevo installato, sparita assieme alle catene inchiodate dai rocciatori. La cima di quella salita non era diversa dal resto del crinale. Un muro verde, inadatto al passaggio di ogni creatura più grande di un gatto.

L’ansia crebbe, e già si stava trasformando in angoscia quando mi vidi costretto a puntare nuovamente il cannocchiale in basso, sulla costa, questa volta per una ben più triste ricerca. Dovevo assicurarmi che i marinai non fossero annegati, e che i loro corpi non giacessero sugli scogli, in balia delle onde. Fu allora che compresi quanto l’isola fosse cambiata. Osservando con attenzione la parete della scogliera notai una certa bombatura, da un lato, come se il piede dell’isola fosse rientrato. Già avevo intuito che ci fossero degli spazi, piccole aperture in cui l’acqua entrava e muggiva, tanto che spesso produceva suoni quasi animaleschi. Ebbene, queste aperture erano come aumentate, tanto da far intuire la presenza di cunicoli e grandi passaggi. Un lato dell’isola, a nord dell’istmo, pareva ospitare di molte aperture, che parevano anzi l’inizio di un sistema di grotte.

E non era tutto. Mentre mi aggrappavo a quella curiosità per distogliere la mente dall’idea di essere stato responsabile del destino di due anime vidi la sagoma di un uomo abbracciata a uno dei molti scogli posizionati proprio di fronte all’apertura delle grotte. La disperazione trasmessa da quella figura subito mi fece capire che non si trattava di un nativo, ma che doveva essere uno dei nostri, tanto più che proprio sotto lo sguardo del mio cannocchiale egli dovette accorgersi del nostro arrivo, perché si agitò, iniziò a sbracciarsi, e poi con grande pena si issò su quella piccola roccia. Era un sasso minuscolo e scivoloso, ed egli riuscì solo per un momento ad ergersi e sollevare le braccia prima di cadere nuovamente in acqua, ma tanto bastò. Lo riconobbi, era Giusmo.

Per brevità ometto i dettagli delle operazioni di salvataggio. Ci avvicinammo con la caravella il più possibile, ma non tanto da rischiare un naufragio tra quelle acque irte di scogli nascosti. Le zattere usate dagli ammutinati erano rimaste legate alla Timorazza e ne usammo una per soccorrere il marinaio, che venne issato a bordo tra abbracci e risate. Era il primo accadimento completamente positivo dopo una lunga striscia di difficoltà e tragedie, e la ciurma lo accolse con un’esaltazione liberatoria.

Giusmo era stanco, stremato e assetato. Lo rifocillammo al meglio delle nostre possibilità, ed egli rapidamente si sarebbe addormentato per un meritato riposo, ma prima di soccombere al sonno trovò le forze per raccontare quanto accaduto. Da mezze parole e alcune incertezze mi parve di intuire che stesse omettendo qualcosa dalla sua narrazione, e potevo ben comprendere la sua cautela, giacché io stesso ero stato restio a raccontare per intero ciò che l’isola mi aveva mostrato. In breve, egli disse che poco dopo la nostra partenza lui e Mercionnio compresero che la nave se ne stava andando senza di loro. Vennero quindi presi da grande angoscia e pensarono di raggiungerci a nuoto, ma subito l’impresa parve disperata. Risolsero di aspettare almeno il giorno successivo, sperando in un nostro ritorno. Mi penò molto ascoltare il racconto di quelle ore nervose, e ben immagino gli occhi dei marinai incollati all’orizzonte, a cercare la sagoma della caravella nella luce del giorno sempre più fioca.

Venne il tramonto, e già i due marinai si preparavano per la notte, quando un nuovo portento venne ad aumentare la loro angoscia. La terra sotto i loro piedi diede un fremito, come se un terremoto scuotesse le radici dell’isola. Posso solo immaginare il loro sgomento quando compresero che l’istmo si stava inabissando. Fu per fortuna un processo graduale, che durò per la gran parte della notte. L’acqua iniziò a guadagnare terreno, come per una marea, ma il loro occhio allenato subito si accorse che il livello dell’oceano si stava alzando troppo in fretta. Qui Giusmo ci tenne a dirmi che Mercionnio si preoccupò prima di tutto di salvare quello che avevo lasciato nella tenda, le mie carte e la bisaccia con cui sempre hanno visto aggirarmi per l’isola. Questo attestato di fedeltà rinnovò dieci volte il mio desiderio di salvare il marinaio, se mai fosse stato possibile.

Giusmo ci disse poi che mano a mano che l’acqua saliva si faceva sempre più difficile per loro trovare supporto su quelle acque infide, e risolsero di salire sull’isola, nonostante il buio incipiente sconsigliasse di seguire questa via, e con il dubbio che Malu Malu stessa da un momento all’altro potesse sprofondare. Al colmo della disperazione, i marinai tentarono di risalire il fianco della montagna usando la corda a nodi che io stesso avevo portato in cima, assieme alla via ferrata installata dai rocciatori. Ma quando si accostarono alla parete purpurea ebbero una sgradita sorpresa: la corda sotto i loro occhi crollò, come tranciata dall’alto, e si inabissò in acqua con una gran frustata. Restavano le catene inchiodate, ben più solide, ma anche quelle divennero d’improvviso inaffidabili. Giusmo mi disse che cominciarono a crollare piccoli sassi dalla parete, che nella sua interezza vibrò, e quand’egli verificò la tenuta del primo chiodo lo vide come venire spinto in fuori. “Come una spina che la pelle rigetta”, disse. Iniziarono a crollare, e da grande altezza, tratti di catena e anelli metallici assieme a frammenti di roccia purpurea, tanto che i due marinai dovettero allontanarsi per non venire feriti da quella pioggia.

Fu qui che, più in altri punti del racconto, ebbi l’impressione che Giusmo stesse nascondendo qualcosa. Forse l’albatross erano tornato a spiarli, o financo ad attaccarli. O forse si erano appalesati i nativi della specie aerea, impossibili secondo tutte le nozioni dell’Arte e tanto più incredibili all’occhio di un marinaio. Se così fosse stato avrei ben compreso quanto Giusmo fosse restio a fornire dettagli sulla sua avventura. Non voleva che lo prendessimo per pazzo.

In breve, Giusmo ci raccontò della sparizione di Mercionnio. Non ho motivo di immaginare che l’impianto generale del suo resoconto sia scorretto, nonostante la certezza che alcuni dettagli siano stati omessi. Egli ci raccontò di come i nativi rapirono Mercionnio. Arrivarono via mare, nuotando, nudi sotto le stelle che iniziavano a spuntare. Sembravano amichevoli, disse, ma quando gli chiesi se avevano parlato o comunicato in qualche modo mi rispose di no. Ebbi l’impressione che stesse mentendo, ma preferii non insistere. I nativi invitarono i due marinai a unirsi a loro, e Mercionnio accettò. Giusmo no, dimostrando forse buon senso, forse ostinazione irragionevole. Egli fu in grado di resistere al veleno delle liane, e fu in grado di rifiutare l’offerta dei nativi in una situazione grandemente perigliosa. Non so che pensare, e lascio qui a voi le stesse informazioni che ricevetti quel giorno, luminosissimo maestro.

I nativi portarono Mercionnio con loro, nuotando e ridendo, verso le grotte che l’isola stava iniziando a mostrare, e che a detta di Giusmo nelle ore successive divenne sempre più visibile, come se Malu Malu “stesse sollevando il bordo della sottana, come una donna”. Egli usò un’espressione più colorita, che potrete immaginare, ma che non riporto per pudicizia. Brevemente aggiunse che passò poi la notte aggrappato a un sasso che sempre più si inabissava, e già temeva di aver compiuto un fatale errore, ma per sua fortuna prima dell’alba i movimenti degli scogli cessarono ed egli rimase lì, appeso, ad aspettare la luce. Con il sorgere del sole noi stessi ci muovemmo e quando il suo cuore rischiava di consegnarlo alla disperazione più cupa ci avvistò all’orizzonte.

Questi gli elementi principali del racconto. A quel punto il marinaio era stanchissimo e non ebbi cuore di impedirgli di riposare. Diedi invece disposizione che andassero a chiamare Moliabre dalla sua cella. Quando si seppe che intendevo andare a cercare Mercionnio e che avevo intenzione di portare con me l’ex secondo di Tirso si diffuse un certo malcontento misto a sospetto, e Franco dell’Orso mi venne a chiedere spiegazioni. Moliabre era un suo prigioniero, mi disse, e non potevo disporne a mio piacimento.

“Moliabre non ha intenzione di aiutarti”, gli dissi platealmente, davanti a tutti. “Se gli forzerai la mano potrebbe condurci tutti fuori rotta, o fare qualcosa di ancora più pericoloso. Dammelo, Franco dell’Orso. Magari lo convinco. Magari ci lascia la pelle. In ogni caso non dovrai più gestire un prigioniero.”

Mentre pronunciavo le mie parole io stesso ero stupito dalla mia perentorietà. L’intera situazione mi stava rafforzando, la possibilità di agire, disvelare infine il mistero di Malu Malu, o anche solo salvare Mercionnio mi regalavano un’energia nuova. L’Orgoglio per me è sempre stato il più lontano dei precetti, il più difficile da comprendere. Come può l’Arte chiedermi di essere arrogante, pieno di me, financo prepotente. Sto iniziando a comprendere che c’è altro. Orgoglio è un mantello candido che mi è dato in custodia. Sta a me mantenerlo pulito. Sta a me sollevarmi al di sopra del fango.

Franco dell’Orso cedette. Per ripicca, o forse per ragionevolezza, mi disse che non poteva permettersi di togliere altre mani dalla caravella, e che mi sarei dovuto far bastare Moliabre. La ciurma sarebbe stata impegnata a inventariare le scorte, riparare le vele e raccogliere quello che potevano trovare: acqua dolce dalle cascate, pesce da essiccare, quel po’ di legname che galleggiava attorno a Malu Malu. In quel momento era passata circa metà della mattinata. All’alba successiva avrebbero tolto l’ancora e iniziato il viaggio di ritorno, con o senza di me. Qualcuno protestò per quella condizione, ma mi parve ragionevole, e poi non volevo contrariare ulteriormente Franco dell’Orso. Accettai, e ci stringemmo la mano davanti a tutti. Poi mi preparai per tornare sulla terra ferma.

Quando informai Moliabre del mio piano egli non reagì in alcun modo. Forse voleva nascondere le sue paure, o non dimostrare debolezza. Va detto che fu una conversazione tesa, mentre egli veniva scortato da due marinai dalla sua cuccetta fino al ponte. Notai che teneva una mano sempre ben chiusa, e immaginai facilmente il contenuto del suo pugno, ma evitai di farvi accenno. Giunti sul ponte ci apprestammo a scendere, così com’eravamo, la scaletta di corda che ci avrebbe portati alla zattera, quando Franco dell’Orso ci fermò. Aveva dato disposizione che qualcuno preparasse per noi delle razioni di pesce, una vescica con dell’acqua fresca e una daga. “Ad ogni buon conto”, mi disse consegnandomi l’involto. Mi guardò negli occhi, con intensità, mentre a Moliabre riservò appena uno sguardo fugace. Accettai con gratitutine, e mentre iniziavamo la nostra discesa più di un marinaio ci augurò fortuna. Poi fummo sul legno della zattera, traballante e con già i piedi bagnati. Slegai la corda che ci ancorava alla Timorazza, presi il remo e con esso ci spinsi via. Dopo qualche colpo eravamo lontani dalla caravella.

“Dovete essere davvero uno scriteriato, mastro mago, oppure possedete segreti di grande potere”, mi disse Moliabre rompendo finalmente il silenzio. “Sapete che ora potrei saltarvi addosso e annegarvi”.

“Oh certo, so che puoi provarci”, gli risposi sorridendo. “E poi?” La schiettezza della mia risposta lo indusse a sorridere di rimando, quasi contro la sua stessa volontà, poi si rilassò visibilmente. “Che gran pasticcio, tutto questo viaggio è stata una stortura. Pensavo che sarebbe stata la mia occasione di mettermi in mostra, il mio ultimo viaggio da secondo prima di essere promosso io stesso capitano, e invece guardate qui: mi si pone la scelta tra il morire tra i barbari di un’isola sperduta o farmi gettare fuoribordo da una ciurma che mi odia. Bah! Tenete”, mi porse la mano e aprendola vidi ciò che aspettavo e agognavo, l’uovo spirituale che conteneva lo spirito dei serpenti e della guarigione, grande come l’uovo di una gallina e di un bel lilla screziato di bianco. Esitai un momento, invaso dall’emozione, ed egli interpretò la mia titubanza come sospetto. “Forza, prendetelo prima che cambi idea!”, mi incalzò. Posai il remo e frugai tra le provviste, da cui estrassi un piccolo panno in cui era avvolto un gran pesce iridato. “Mettetelo qui”, dissi indicando il tessuto che avevo tra le mani. Fui molto attento a non toccare mai l’uovo, e Moliabre fu prima incuriosito e poi spaventato. “È pericoloso, che non lo toccate con le mani? Forse che questa pietra sia intrisa di un veleno? Sono intossicato?”

Scossi il capo mentre chiudevo l’involto con cura. “Solo per me. Tu non hai uno tsolo”, dissi mentre riponevo l’uovo al sicuro. “Tu non sei un mago.” A quel punto pensai che quella nascente fiducia doveva essere cementata, ignoria i dubbi che comunque albergavano nel mio cuore e gli posi la daga che Franco dell’Orso mi aveva consegnato. Fu quindi il turno di Moliabre di essere stupito e tentennare. Mi guardò negli occhi con fare indagatorio ma io mi limitai a scrollare le spalle. Egli prese la lama, incredulo. Io presi il remo e ricominciai a percuotere l’acqua. Mi venne in mente che probabilmente dalla caravella ci stavano osservando con il cannocchiale, ma non diedi peso alla cosa. Per affrontare l’impresa davanti a me avevo bisogno di aiuto, e non potevo certo permettermi di dovermi guardare le spalle anche dal mio stesso compagno. Avrei spiegato le mie motivazioni a Franco dell’Orso più tardi, se e quando fossi tornato vivo alla Timorazza.

Giungemmo all’isola. Non avevo fino a quel momento formulato un piano preciso, ma le circostanze sembrarono suggerire una chiara linea d’azione. Saremmo passati per le grotte che traforavano il piede di Malu Malu, alla ricerca di un passaggio. In fondo se i nativi usavano quel sistema di cunicoli come punto d’attracco e di partenza doveva per forza esserci una via. Seguendo le tracce di Mercionnio avremmo certamente scoperto il suo destino.

Era la prima volta che potevo osservare queste aperture da vicino. È pur vero che avevamo notato di tali grotte sin dal nostro primo arrivo all’isola, ma allora ci parvero rientranze e cavità naturali, di quelle che comunemente si incontrano anche sulle coste della madre patria, e che difficilmente proseguono per più di qualche braccio in profondità. Le considerammo di poco interesse, e poi l’istmo rappresentava un punto d’attracco ideale. Insomma, non indagammo mai davvero la natura di tali aperture. 

Qualcosa doveva essere davvero cambiato nella struttura dell’isola, e ragionavo su quanto dovevano essere portentosi i sommovimenti vulcanici per produrre di tali mutamenti, che ora mostravano e rendevano accessibile il sistema di cunicoli che correva sotto Malu Malu. In un angolo della mia mente sentivo ancora la voce sardonica di maestro Filippo che mi scherniva perché non accettavo la sua spiegazione, ben più semplice: Malu Malu aveva nascosto queste vie d’accesso, attirandoci con l’istmo e forzandoci a stare dove voleva lei e poteva ben controllarci. Poi, ottenuto quello che voleva, alla prima notte in cui noi fossimo stati lontani – ancora la notte! – si era sbarazzata di tutto, istmo, corde e via ferrata, ed era tornata ad uno stato naturale, che consentisse ai suoi abitanti un facile accesso. Come sempre, vi scrivo queste parole per completezza, perché i pensieri mi vennero a trovare, e per dibattito accademico. Non credetti neanche per un istante alle farneticazioni di quell’ombra che infestava il mio cervello.

Cercammo un’apertura grande abbastanza da permetterci di entrare con la zattera, mi voltai per guardare un’ultima volta la Timorazza, placida e lontanissima, e proseguii. In un momento fummo dentro, la luce cambiò, e con essa cambiò tutto: temperatura, suoni, odore dell’aria. Come in certi sogni dove si attraversa una soglia e si arriva in un posto del tutto nuovo, che non ha niente a che spartire con dove ci si trovava un istante prima, o come a teatro, dove basta sollevare un nuovo fondale e smorzare le lanterne per ingannare lo spettatore e convincerlo d’aver viaggiato in un battito di ciglia, ci trovammo altrove. Lo scrivo senza esagerazione: pareva un altro mondo.

La luce diurna che penetrava dalle nostre spalle illuminava solo un piccolo tratto d’acqua, ma poi rimbalzava, si rifrangeva in mille scintillii disordinati. La caverna era in penombra, ma non buia, e potevo scorgere dinanzi a me come proseguisse in volumi e stanze sotterranee, le cui volte potevano scendere fin quasi a sfiorare il pelo dell’acqua per poi tornare ad alzarsi altissime. Era un luogo quieto, dove il suono dello sciabordio dell’acqua si rifrangeva disordinato fino a scomporsi in un fruscio persistente. L’aria si era fatta più calda, quasi fossimo in una stalla, ne percepivo il tepore sulle narici ad ogni respiro, e ad ogni respiro inghiottivo un sapore pungente, come quello che permea certi pomeriggi estivi dopo che il fulmine si è abbattuto. Un altro mondo. Spinsi l’acqua con il remo e ci addentrammo.

Il soffitto e le pareti della grotta erano della stessa roccia porpora che ormai ben conoscevo, anche se molto presto iniziarono a comparire venature minerali e cristalline, che si rincorrevano come radici e cambiavano spesso colore: vidi incrostazioni opalescenti, smeraldine, nere d’onice e bianche d’agata. Ricorderete che non sono mai stato diligente nello studio della mineralogia, nonostante i vostri bonari rimproveri. Ebbene, in quella grotta le mie poche conoscenze andarono in frantumi: ero sì in grado di riconoscere venature e gemme, ma poi posavo gli occhi su concrezioni inspiegabili, strutture a me ignote non tanto nella composizione quanto nella forma. Vidi due lunghe venature di quarzo, una bianca e una viola, che si avvolgevano in una spirale fino a convergere in una gemma grande quanto il pugno di un uomo e che scomponeva la luce riflessa dall’acqua nei colori dell’arcobaleno. Vidi una parete tassellata di pietre esagonali, lepidolite e pirite, giada e zaffiro, disposte in una tramatura disordinata che però mai accostava due pietre del medesimo tipo. Lo sapete meglio di me, nessuno di questi minerali genera strutture a sei lati, e certamente non alternandosi agli altri tre. Eppure eccomi davanti a quel mosaico, incantato, disorientato, quasi dimentico di dove ci trovavamo.

Fu Moliabre a destarmi. Egli mi toccò la spalla e mi fece voltare, indicando un punto dove il soffitto scendeva fino al livello dei nostri occhi, e anche di più, e dove per passare ci saremmo dovuti chinare sulla zattera. Feci in tempo a vedere dei cerchi allargarsi sulla superficie dell’acqua, che tornò poi subito al suo normale moto ondoso. Qualcosa si era inabissato con la stessa agilità liquida di certe lontre, che sembrano quasi fatte della stessa sostanza dei laghi in cui cacciano. Moliabre estrasse la daga ma, interrogato, ammise di non aver visto con chiarezza cosa avesse disturbato l’acqua.

Attendemmo, nella penombra, in piedi sulla zattera scivolosa e beccheggiante, con le orecchie piene del frusciare confuso delle onde che si frantumavano su mille scogli e del loro eco rimbalzato con disordine. Passarono cinque respiri, poi trenta. Non accadde nulla, non vedemmo altri movimenti nell’acqua. Ricominciai a spingere la zattera con cautela, ben consapevole di essere osservato.

La luce del sole faticava sempre di più a raggiungerci, già da tempo nessun raggio diretto illuminava la scena e dovevamo accontentarci del baluginare dei riflessi rimbalzati dalla superficie dell’acqua e dalle molte incrostazioni cristalline. Quando anche questi ultimi sprazzi di luce indiretta si fecero sempre più fievoli rallentai l’avanzata, indeciso. I cunicoli sotterranei proseguivano, e l’aria si faceva sempre più calda, chiaro segno che l’isola doveva nascondere un cuore vulcanico attivo, che peraltro avrebbe spiegato i recenti movimenti di terreno e la sparizione dell’istmo. E però proseguire così, nel buio pesto, a rischio di incagliarci o perderci, non pareva un’idea saggia. Bisbigliando, perché non osavamo alzare la voce in quel santuario sotterraneo, discussi con Moliabre dell’opportunità di tornare alla Timorazza per prendere una lanterna, e magari qualcos’altro che potesse venire utile alla nostra esplorazione, quand’ecco che i nostri occhi finalmente abituati all’oscurità ci mostrarono che le tenebre dinanzi a noi non erano del tutto complete. Potevamo intuire delle sagome, i volumi della grotta, anche se a malapena e con grandissima fatica. Era come spiare una figura di fuliggine disegnata su un pannello dell’ebano più nero. In quelle condizioni precarie intuimmo che più avanti doveva esserci una sorgente di luce, e quindi un’apertura, un punto in cui la grotta si ricongiungeva all’esterno. L’aria stessa mi parve più leggera, mossa da correnti segrete che denunciavano la fine di quella strada sotterranea. Decidemmo di proseguire, e fu allora che ci attaccarono.

Improvvisamente la zattera si inclinò, il lato sinistro si sollevò dal pelo dell’acqua e quello destro sprofondò. Immediatamente persi l’equilibrio e crollai sulla superficie del natante, aggrappandomi come potevo, e con sommo orrore sentii che venivo afferrato e trascinato giù da molte mani. Riuscii infilare le dita tra le assi della zattera e resistere per quanto possibile in quella superficie instabile, scivolosa, e sempre più inclinata, ma fu subito chiaro che era un’impresa disperata. La forza che mi attirava verso l’acqua era soverchiante, le mie dita scivolarono sul legno, trovai ancora un appiglio, ancora lo persi, sentii il gelo dell’acqua quando avvolse i miei piedi, i miei polpacci, provai a scalciare ma due o più mani mi tenevano robustamente per le caviglie e riuscii solo a perdere terreno, ancora più in basso, senza speranza. La zattera diede una vibrazione quando un peso si issò proprio da quel lato che si stava inabissando, potevo ben immaginare il corpo agile di un nativo che senza sforzo si ergeva sul bordo nel tentativo di rovesciarci, e pensai che fosse finita, che la nostra gloriosa impresa di salvataggio andava così a concludersi, e che forse sarebbe stato meglio così, in qualche modo seguire il destino che era toccato a Mercionnio e agli altri disgraziati avrebbe chiuso il cerchio, avrei almeno potuto chiudere gli occhi pensando di averci provato, di avere dato tutto. Poi sentii un impatto sordo, metallo contro carne, quel peso che sbilanciava la zattera cadde in avanti e mi crollò addosso, ed era un uomo, senza dubbio, e sanguinava, senza dubbio, e arrivarono altri fendenti di Moliabre che, alla cieca e con furia, malmenavano tutto e tutti, braccia dei nativi, legni della zattera, e anche fatalmente le mie gambe. Nel buio completo Moliabre non sapeva cosa stava colpendo, sapeva solo che c’era un nemico mortale e che andava scacciato. Il suo attacco si rivelò efficace, forse i nativi non si aspettavano quella furia, appena allentarono la pressione la zattera con un tonfo tornò orizzontale, il suo fondo scivoloso per l’acqua e vischioso per il sangue, e io iniziai a remare con tutta la forza che avevo ancora in corpo, senza sapere davvero se la direzione fosse quella giusta, col solo desiderio di resistere a quel nemico invisibile. Moliabre mulinava la daga, lo sentivo, produceva anche dei suoni trascinati di metallo contro legno, e intuii che tenesse la lama appoggiata al lato della zattera e lo facesse scorrere, e anzi più tardi, in un momento di quiete, mi confermò che era proprio quello che stava facendo, e mi mostrò con fierezza il bottino di quelle sue azioni: sei dita mozzate.

I nativi cambiarono tattica, sconfitti dalla nostra cattiveria. Iniziarono a scuotere la zattera da sotto, per sbilanciarci, e un paio di volte riuscirono quasi a gettarci in acqua, ma era un attacco inefficace, e ora che sapevamo a cosa stare attenti sentivamo di avere di nuovo il controllo dell’imbarcazione. Intanto i miei colpi di remo e la naturale spinta delle correnti ci avevano portato ancora più in profondità in quelle gallerie, la luce aumentava e iniziammo a vedere i contorni delle pareti rocciose attorno a noi, la nostra zattera, noi stessi. Vedevo chiara davanti a me la sorgente della luce, l’acqua stava tornando a farsi luminosa come quella che avevamo lasciato alle nostre spalle all’inizio della grotta, e già la luce iniziava a venire rifratta dalle numerose venature cristalline che ovunque correvano per le pareti. Mi permisi una minuscola scintilla di speranza, che subito venne soffocata quando il remo mi venne strappato con forza dalle mani, togliendoci l’unico modo di governare i nostri spostamenti. Ci trovammo di nuovo in balia del nemico, sulla superficie instabile della zattera, senza più controllo. Non osavamo spingere l’acqua con le mani per terrore di venire trascinati giù, e ci stringemmo l’un l’altro, schiena contro schiena, in attesa. La zattera iniziò a spostarsi con decisione, mossa forze nascoste. Potevo immaginare le mani nemiche che arpionavano le assi da sotto i nostri piedi e ci trascinavano secondo loro gusto. I nativi non sembravano aver bisogno di riemergere per respirare, oppure lo facevano lontano da noi, per tornare poi subito sotto il pelo dell’acqua. Questo pensiero aumentava il nostro terrore, eravamo circondati da un nemico invisibile e inavvicinabile, che poteva colpire ad ogni istante. Non sapevamo dove ci stessero conducendo, ma era chiaro che non non avevano intenzione di farci proseguire verso la fine delle gallerie. Sembrava anzi che avessero deviato lungo una diramazione, un cunicolo sempre più buio e, scoprimmo, sempre più basso. Presto le nostre teste sbatterono contro il soffitto e fummo costretti a ingobbirci, e poi a sederci. Fu infine chiara la natura di quell’attacco: non riuscendo a ribaltarci ci stavano neutralizzando in altro modo, spingendo la zattera in un’area bassissima, dove tra il pelo dell’acqua e il soffitto roccioso della caverna non corresse più di qualche spanna. Alla prima occasione provai ad arpionarmi ad un roccia sporgente dal soffitto e resistere a quel moto, con il solo effetto che i miei piedi persero subito la presa sul legno della zattera. Fui costretto a mollare, per non ritrovarmi aggrappato a quel sasso da solo, nel buio. Anche Moliabre stava facendo di quei tentativi e, a giudicare dai suoni di frustrazione, stava incontrando le mie medesime difficoltà.

Tutto si fece buio, ormai nessuna luce riusciva a rimbalzare fino a quella remota diramazione in cui eravamo stati incuneati. Il soffitto si abbassò ancora, costringendoci a stenderci, supini, e strisciare sui gomiti per spostarci sul legno. I nativi spingevano ancora, e spesso le rocce ci graffiavano la schiena, ormai tra zattera e soffitto non correvano più di due spanne. Iniziai a sentirmi soffocare, in quel buio senza dimensione, con le onde ad ogni rollio mi schiacciavano un po’ di più contro la roccia sopra di me. Moliabre dovette accorgersi della mia agitazione e commentò che aveva cambiato idea e preferiva tornare sulla Timorazza. Diedi una risata nervosa, cercando assieme di pensare e non pensare al destino che ci stava letteralmente schiacciando, e risposi che affrontare Franco dell’Orso tutto sommato non gli doveva sembrare male, ora.

Il nostro moto parve rallentare, ma non per pietà da parte dei nostri carnefici. Eravamo ormai perennemente schiacciati contro il soffitto irregolare, io giacevo con la schiena contro il legno della zattera, rocce e altri spunzoni mi pungevano le carni, il petto, il ventre e il volto, e la pressione della zattera, che secondo sua natura cercava l’alto, mi immobilizzava e mi rendeva difficile il respiro. I nativi non avevano bisogno di fare altro per liberarsi di noi, eravamo in trappola, e in quella trappola avremmo fatto la fine del topo. Fummo assaliti dal panico, come potete immaginare, volontà e dignità erose da ogni minuto passato in quell’abbraccio tra il legno e roccia, finché la tensione ruppe gli argini, iniziammo a gridare, insultammo il nemico, ci scuotemmo sulla zattera, non ho vergogna di dire che piansi. Ogni respiro era dolore, l’acqua gelida sfiorava la mia schiena e mi rubava poco a poco tutto il calore che avevo in corpo, sapevo di essere ormai incastrato e solo con uno sforzo sovrumano mi sarei potuto togliere da quella trappola. E poi per cosa? Per essere divorato dal nemico in agguato, una fine forse più onorevole, più guerreggiante, ma che anche in quella situazione disperata non mi sentivo di scegliere. 

Forse fui codardo nel preferire quel lento agonizzare ad un’ultima grande battaglia, ma era una codardia che avevo in comune con Moliabre, anche lui ben motivato a restare aggrappato sul legno. È forse semplice leggere le mie parole su una comoda poltrona, davanti ad un camino dove arde un grosso ceppo di rovere, e pensare che al mio posto si sarebbe dato battaglia, si sarebbe venduta cara la pelle. Invece io rimasi lì, disperato, a piagnucolare. E la codardia mi salvò.

Passarono i minuti, l’agitazione allentò seppur di poco la sua stretta sul mio cuore e realizzai quanto fossi dolorante. Durante la sua difesa furiosa Moliabre aveva menato fendenti nel buio quasi completo per liberarmi dai nativi che mi stavano trascinando in acqua, e fatalmente aveva finito per colpirmi. Iniziai a sentire delle ferite pulsare, su una coscia, un ginocchio, un polpaccio. Probabilmente stavo sanguinando, provai a toccare le aree dolenti per quanto la posizione me lo permettesse e tastai alla cieca i bordi slabbrati di una lacerazione. E poi c’era quel soffitto che mi graffiava, mi penetrava le costole, mi schiacciava. La mia pelle era in fiamme, sapevo che a breve avrei iniziato ad ardere di febbre.

Potete ben immaginare cosa feci, giacché non avevo poi molta scelta. Frugai nella bisaccia che ancora miracolosamente avevo addosso e trovai l’involto con l’uovo spirituale che conteneva lo spirito dei serpenti e della guarigione. Lo conoscevo, l’avevo già Comandato, vedete anche voi quanto sarebbe stato utile in quel frangente, almeno per darmi respiro, almeno per migliorare un po’ una situazione comunque disperata.

E però immaginerete anche perché esitavo. Non avevo una gorgiera, non ero in uno stato mentale di lucidità e controllo, e non avrei ottenuto poi molto più di prolungare la mia stessa agonia. A spingermi a Comandare infine non fu un pensiero razionale, non produssi una misurata valutazione delle mie possibilità. La verità è che volevo farlo. Volevo sentire per un’ultima volta l’esaltazione dell’Arte, visitare il mio tsolo, sentire il potere scorrere. Lo so, scrivendo queste parole mi sto condannando per cattiva pratica e violazione del Canone. Ma ho promesso che a voi, luminosissimo maestro, avrei raccontato con completa sincerità gli eventi della spedizione. E poi ormai non importa.

Frugai e afferrai l’uovo nel palmo della mano, e non mi sfuggì l’ipocrisia di quel gesto: tanto ero stato pronto a condannare maestro Filippo per aver Comandato senza seguire la procedura corretta, quanto ero pronto in quel momento a fare la stessa cosa. Feci il vuoto dentro di me e accolsi lo spirito.

Il mio tsolo venne travolto dalla massa dei serpenti. Pareva che qualche oscura risonanza li avesse allertati, e appena socchiusi la mia porta interiore venni inondato di rettili, un continuo torcersi di scaglie e code e occhi spaccati da pupille disumane, fino a che tutto lo spazio venne riempito, serpenti su serpenti, spire su spire, e anzi salì la pressione, come se ce ne fossero ancora e come se spingessero per entrare. Mi venne in mente un’incisione che vidi da bambino che illustrava le torture inflitte fino a poco tempo fa ai nemici della patria. C’era questo disegno di un uomo legato, col ventre orrendamente disteso, mentre i suoi carnefici gli forzavano un grande imbuto in gola, e in quell’imbuto versavano otri e otri d’acqua, fino a tendere le carni del pover’uomo, fino a farlo forse scoppiare, certamente fino a ucciderlo.

Ecco, mi sentivo così, con l’enorme massa dei serpenti che non accennava a diminuire, e c’era quasi dell’ironia, da fuori venivo schiacciato dalla zattera contro il soffitto e da dentro venivo espanso come una torta che lievita e minaccia di debordare la teglia.

A questo punto avrei dovuto interrompere la connessione e sbattere fuori dal mio tsolo lo spirito. Lo so. Era la cosa corretta da fare. Ma in quel momento non ragionavo chiaramente, la mia Lucidità soffocata dal terrore, e comunque in cuor mio mi sentivo spacciato. Pur in quella situazione di assenza di controllo diedi l’ordine perché lo spirito si attivasse e usasse la sua influenza per guarirmi.

Quando avevo forse otto anni capitò che venni preso di mira da tre bambini di poco più grandi di me. Li ricordo ancora benissimo, Gianpiero Cafferugi, Salmarco di Giorgio, Cosimo il figlio del mugnaio, una di quelle alleanze formidabili che solo l’infanzia può permettere, figli di mondi diversi, famiglie nobili e popolino, ragazzi uniti dal desiderio di trovare qualcuno di debole da tormentare. Li ricordo come una forza della natura, mi parevano giganti fortissimi, e davanti a loro non potevo che scappare, e in realtà neanche quello, che mi acciuffavano con facilità e con facilità facevano di me quello che volevano. 

Una volta, per scherzo, quasi mi affogarono. Non voglio tediarvi con i racconti puerili di un’infanzia identica a tutte le altre, fatta di piccole vittorie e grandi spaventi, ma pazientate ancora un momento e immaginatemi, un ragazzino imberbe, smanacciato da tre carnefici spietati, che ridono e mi avvolgono in una coperta marrone – ho ancora davanti agli occhi la tramatura di quel panno, ho ancora nel naso l’odore di paglia e urina animale, che dovevano averla rubata da una stalla. Mi avvolgono come in un sudario e io sono un bambino e la coperta è molto più lunga di me e infatti ne avanza una grande parte sopra la mia testa e sotto i miei piedi, e quelle parti abbondanti i miei tre carnefici pensano bene di chiuderle con dei giri di corda, strettissimi, e poi già che ci sono avvolgono la corda rimanente attorno al mio corpo, una spirale inesorabile che mi blocca dentro quel bozzolo e loro ridono, soprattutto ridono. Io penso che quella sia l’angheria del giorno, che insomma sia finita lì, che è già un bello scherzo, una bella vittoria, e sto fermo immobile e penso che si stuferanno, che non posso fare niente e che mi è capitata quell’ingiustizia ma va bene così, non mi lamento, forse piango un po’ ma non mi lamento.

Se vi scrivo queste cose è per una ragione precisa, luminosissimo maestro, e vi chiedo scusa per costringervi a leggere ricordi tanto personali, ma mi sono trovato incapace di descrivere quello che successe quel giorno, in quella grotta, senza raccontarvi questo, di quella volta che Gianpiero Cafferugi, Salmarco di Giorgio, Cosimo il figlio del mugnaio mi legarono in un sudario e poi mi gettarono in un lago.

I tre pensavano di avermi tirato un bello scherzo, ed è pur vero che quando impattai sull’acqua per un istante galleggiai, e dovevo sembrare un salame che viene cotto avvolto in un cencio o qualcosa di altrettanto ridicolo perché sentii le loro risate, una grassa, una stridula e una sguaiata. Ma poi in un istante affondai, e quel poco di corrente che muoveva l’acqua mi portò subito lontano dalla riva, e io non posso saperlo ma credo che i ragazzi – che erano poco più grandi di me, e quindi comunque dei bambini – credo che i ragazzi smisero di ridere quasi subito, e si presero paura, e scapparono. Fatto sta che mi trovai solo, ad affondare.

Per fortuna dentro il bozzo ero libero di muovermi, e così per istinto iniziai a scalciare e dimenarmi, che però ebbe la sfortunata conseguenza di farmi avvolgere ancora di più in quel sudario, più mi agitavo più finivo intrappolato, avvolto in quella pelle che mi aderiva alla faccia, alle braccia, a tutto, l’acqua era penetrata attraverso la tramatura grossolana della coperta e mi incollava ancora di più il tessuto addosso, avevo freddo, l’aria era finita da un pezzo e i polmoni ardevano e lottavo per non respirare acqua, e già la vista se ne andava, già vedevo delle macchie bianche in quel buio tremendo che era diventata la mia vita e già un grande gelo si impadroniva dei miei arti e poi non so per quale accidente ma trovai un’apertura, acqua ancora più fredda che però significava vita e libertà e scalciai e mi spinsi fuori e sentii tutta quella coperta, quel cencio, quella pelle scorrere su di me e lasciarmi e crollare nelle profondità mentre io ascendevo a nuova vita e tornavo su, su, a respirare.

Credo che la mia mente annebbiata dal dolore e dall’angoscia per l’attacco dei nativi mi portò a rivivere quel ricordo, perché ebbi esattamente la stessa sensazione, come se ascoltassi il racconto di una favola già sentita molte volte, e di nuovo mi dovetti liberare di un qualcosa, il mio tsolo invaso, il mio corpo schiacciato, e lo spirito che cantava e sibilava e la pelle scorreva sulla pelle, mi liberavo del mio guscio danneggiato e vecchio e il serpente, la massa di serpenti fece la sua muta, e io con essi, io attraverso di essi, abbandonai il vecchio e rinacqui nel nuovo, debole, molle, fragile, è vero, ma guarito. Il sangue smise di scorrere, le ferite si riempirono di nuova pelle, i muscoli e i tendini danneggiati ritornarono alla loro originaria salute. Non del tutto, badate, e se sarete curioso vi mostrerò la cicatrice che corre su una mia coscia, uno squarcio slabbrato coperto da pelle cesellata a scaglie. Ma tornai in salute, portento dell’Arte, straordinario prodigio.

Ma poi successe subito altro, che come ben vedete non vi è requie in questo racconto. Qui mi baso su quello che mi disse Moliabre, che io non ero del tutto presente a me stesso in quei momenti. In breve, i nativi ci liberarono. In prima battuta Moliabre mi confessò che temeva fosse giunto l’assalto finale, che quei minuti in cui ci avevano schiacciato contro la roccia fossero serviti ad attendere rinforzi e che finalmente fosse arrivato un gruppo abbastanza nutrito di nemici da sopraffarci con la sola forza dei numeri. Ma non fu così, la zattera venne mossa e fummo portati lontani da quell’orribile trappola, il soffitto si alzò, aumentò la luce, e insomma fummo accompagnati, quasi con riguardo, verso quell’apertura che avevamo cercato e che ci era quasi costata la vita. Io lentamente stavo riprendendo i sensi, lo spirito dei serpenti era sempre attivo ed eccitato dentro me, ma dopo aver esercitato il suo potere aveva perso slancio e io tornai lucido abbastanza per aprire gli occhi e mi guardarmi attorno.

La zattera si era incagliata su una piccola spiaggia di sassi. In quel punto la grotta si allargava, e davanti a me avevo un’ampia caverna allagata, quasi un piccolo lago sotterraneo. Arrivava luce dalle mie spalle, e da sopra, e guardandomi attorno vidi un’apertura che saliva, un camino di roccia da cui scendeva un torrentello d’acqua che rendeva la pietra lucida prima di inabissarsi nell’oceano. C’era anche un accenno di vegetazione, alcune delle piante rigogliose di Malu Malu si erano spinte giù per quell’apertura, e questo voleva dire che quella che vedevamo precipitare era acqua dolce, un’altra delle molte cascate che da Malu Malu piovono nell’oceano.

Moliabre fu più reattivo di me, assicurò la zattera ad una roccia sporgente e senza troppe cerimonie mi trascinò all’asciutto. Come vi scrivevo ero cosciente solo in parte, stavo ancora Comandando, anche se il mio controllo sullo spirito era minimo. Ora, con la calma che è privilegio del ricordo, posso confermare ciò che in quel momento fu solo una vaga intuizione: nel mio tsolo lo spirito dei serpenti e della guarigione era sovreccitato e reagiva in maniera anomala, così come aveva fatto lo spirito della verticalità – quello spirito che immaginavo come un orrendo incrocio tra una scimmia e una capra, e che mi aveva posseduto quando ero salito sulla scogliera di Malu Malu la prima volta. Anche allora lo spirito mostrò un comportamento anomalo, si ribellò, aggredì il mio tsolo, e da ultimo prese il controllo, tanto che fui costretto a staccare l’uovo e interrompere il contatto con gran rischio. Nel caso dello spirito dei serpenti io stavo ancora mantenendo almeno in parte il controllo, ma i due eventi avevano chiare somiglianze. Mentre vi scrivo queste parole Maestro Filippo, nella mia testa, sogghigna in silenzio.

Io e Moliabre avemmo il tempo di tirare il fiato, scambiare qualche parola, guardarci attorno. Eravamo sospettosi di quel repentino cambio di comportamento, ma pareva proprio che il pericolo immediato fosse passato. Iniziammo a considerare il da farsi e studiare la risalita lungo canale da cui pioveva acqua e luce, quando dall’acqua nera del lago sotterraneo emersero le teste di una decina di nativi. Dico emersero, ma la verità è che a un certo punto ci accorgemmo della loro presenza, non avevano fatto alcun rumore. Non li vedemmo spuntare, semplicemente li notammo. Erano fermi, e ci guardavano, e non mi parve che nuotassero. Essi stavano, verticali, con l’acqua arrivava alle loro spalle. Ci guardavano, le pelli scure rese ancora più scure dalla penombra, e i capelli nerissimi incollati alla pelle dall’acqua. Tutti simili, tutti stranieri, tutti di un’etnia sconosciuta in patria. Tutti tranne uno. Una di queste figure, assolutamente identica alle altre per comportamento, spiccava però per il colore della pelle, decisamente più chiaro, decisamente più simile alla mia e a vostra, luminosissimo maestro. Mi servì più di un momento per mettere a fuoco i dettagli in quella penombra di luce riflessa, ma poi come un lampo lo riconobbi. Era Griso, uno dei quattro marinai che si gettarono in acqua appena giungemmo a Malu Malu per nuotare con i nativi. Di Manfreduccio trovammo il corpo, annegato e terribilmente pieno di morsi. Degli altri tre, Griso, Mugno e Falamberto, non trovammo traccia e li ascrivemmo alla lista dei dispersi. Ed eccolo qui, vivo, senza dubbio, ma diverso, irrimediabilmente diverso. In altri tempi e in altre circostanze avrei dovuto considerarlo un disertore, un traditore della patria che abbandona il suo dovere per unirsi al nemico. Ma qui, ora, così? Che pensare?

“Griso!”, chiamò Moliabre, la sua voce rimbalzata in cento echi. “Griso, che fai lì in acqua? Vieni, vieni qui.” Ma il marinaio non reagì in alcun modo. Come gli altri si limitava a galleggiare, solidale con la superficie dell’acqua, saliva e scendeva con il moto delle onde, e mi guardava. Non c’era dubbio, gli sguardi dei nativi erano tutti rivolti verso di me, e non so dire che sentimento potesse animarli. Erano curiosi? Erano in attesa? Si aspettavano che facessi qualcosa?

So che quello che feci fu di certo un errore. Voi avrete già capito, e forse appare chiaro a chiunque leggerà queste mie parole, qual era la logica degli eventi, ma in quel momento non ero lucido, non ero padrone di me, e insomma sbagliai. Volli liberarmi dalle distrazioni per potermi concentrare sui problemi imminenti, così decisi di espellere lo spirito che ancora Comandavo.

Lo feci seguendo la procedura canonica, chiusi gli occhi e spinsi l’immane massa rettile fuori dal mio tsolo. Essa si oppose, fece forse più resistenza di quanto sarebbe proprio, e tutto si risolse in uno scontro di volontà, che però vinsi. Il mio tsolo si svuotò, per metà, per tre quarti, fino a quando non rimasero tre o quattro serpentelli, bisce d’acqua di quelle che popolano le nostre rogge, e poi neanche quelle. Il bel marmo del pavimento era tornato immacolato, il mio tempio spirituale era ora vuoto.

Riaprii gli occhi, finalmente di nuovo padrone dei miei sensi, con l’intento di studiare meglio il da farsi. Ma davanti a me la situazione era mutata. I nativi, che fino a un momento prima giacevano immobili e pensierosi, ruppero quella quiete, si guardarono tra loro, un paio emisero dei versi soffiati e minacciosi, alcuni si immersero immediatamente, e più della metà avanzarono verso di noi con fare belligerante.

D’istinto arretrammo. Avevamo subito perso di vista Griso, quindi quelli davanti a noi erano nemici, solamente nemici. Arretrammo, tragicamente consapevoli che questa battaglia l’avremmo perduta. Non avevamo il vantaggio tattico di quando respingemmo l’assalto dei nativi sulla Timorazza, non v’era barricata a difenderci, non eravamo armati, la nostra unica daga pareva ben poca cosa davanti a quella massa di predatori. Vedevo ora bene in quei volti una stoltezza disarmante, sapevo che non avrei potuto ragionare in nessun modo con i nativi come non potrei parlamentare con dei cani randagi. 

“Ma che gli è preso, d’improvviso?”, mi chiese Moliabre spaventato mentre un passo alla volta ci trovavamo quasi spalle al muro, sotto il camino da cui colava luce e acqua. Non volli rispondergli, perché era complicato, perché avevo solo un’intuizione vaga, perché non aveva senso. È chiaro che tutto era cambiato quando avevo iniziato a Comandare, e tutto era di nuovo cambiato quando avevo smesso. I nativi si comportavano come tanti parapneuma, percepivano l’attività degli spiriti nelle vicinanze, non c’è dubbio. Ma come è possibile? In quel momento non sapevo certo rispondere, la minaccia immediata poneva questioni ben più pressanti, e anche ora che tutto è finito potrei dare solo spiegazioni parziali e, tragicamente, in violazione dell’ortodossia.

Arretrammo ancora ed esaurimmo lo spazio. I nativi erano a non più di dieci braccia davanti a noi e, non volendo dare battaglia, ci volgemmo verso l’unica direzione possibile: iniziai ad arrampicarmi verso quell’apertura da cui pioveva finalmente luce, e Moliabre dietro di me, e ci coprimmo a vicenda, lui con la daga, io con delle pietre che riuscii a divelgere e scagliare contro i nostri inseguitori, in basso, che si seguivano dappresso. Scoprimmo che quel camino verticale offriva molti appigli, e in alcuni punti la vegetazione schiacciata da molti passi denunciò che era forse proprio per quella via che i nativi accedevano alla superficie dell’isola, una passerella nascosta ben più agevole della scogliera a strapiombo che eravamo stati costretti a usare nelle settimane precedenti.

Fu una fuga faticosa, l’acqua scendeva copiosa per quella galleria rendendo tutto viscido, e i nostri inseguitori conoscevano certamente meglio il percorso mentre noi dovevamo scoprire ogni passo. Ma il terreno giocava anche a nostro vantaggio, costringeva i nativi a procedere in fila, nei punti più larghi al massimo due, tre di loro potevano affiancarsi. Salimmo aggrappandoci alle rocce purpuree e alle felci, ai minerali colorati e ad altre piante di cui dovrei inventare i nomi. E c’era sempre più luce, ad ogni passo vedevamo meglio, ad ogni minuto la nostra fuga acquistava speranza. Non so dire quanto salimmo, dovemmo coprire l’intera altezza della scogliera e poi altro, ancora più in alto, anche se in quella galleria era impossibile misurare le distanze. Ci affaticammo, le gambe iniziarono a dolere, ed io ero anche roso dalla fame, come voi potrete bene capire: lo spirito dei serpenti aveva dato fondo alle mie riserve per mettere in atto il suo prodigio, e ad ogni passo sentivo le mie forze scemare.

Passammo per un punto particolarmente stretto, un angolo in cui mi dovetti issare a forza di braccia e poi subito abbassarmi per afferrare Moliabre e tirarlo al mio livello. Senza dire niente ci fermammo, in agguato. Appena comparve il primo paio di mani Moliabre colpì di daga. Dal basso salì un rumore animale, di protesta, e sentimmo un tonfo. Il nativo aveva perso la presa e doveva essere crollato sui suoi compagni. Ci fu un secondo assalto, e poi un terzo, che Moliabre respinse senza grande fatica. Ci guardammo, affannati. Quella era un’ottima posizione, molto ben difendibile, ma se i nativi continuavano il loro assalto, se mostravano ancora disprezzo per la propria incolumità come già avevano fatto durante l’assalto alla Timorazza, eravamo comunque in trappola. Guardando in alto già intravedevo uno squarcio di cielo.

“Trovate qualcosa per coprire quest’apertura!”, mi gridò il mio compagno mentre respingeva un altro assalto. Ero reticente a quella separazione, epperò non c’erano dubbi, Moliabre aveva ragione, anche se avessimo raggiunto la superficie non saremmo stati di certo in salvo con quella masnada di inseguitori alle calcagna. Dovevamo bloccarli, e poi trovare un modo per tornare alla Timorazza. Gli augurai la fortuna e proseguii la risalita.

Il cielo mi colpì come uno schiaffo. I miei occhi si erano solo in parte abituati, mentre risalivo quel pozzo ombroso, illuminato solo da luce indiretta. Salii l’ultima scarpinata e mi ritrovai sul pendio inclinato del vulcano, un paesaggio nudo e glabro. Ero fuori, potevo respirare, potevo vedere leghe e leghe davanti e sotto di me, niente più roccia a soffocarmi, niente più sassi, solo l’isola davanti a me, la pianura vuota e l’anello di foresta smeraldina e poi l’oceano sterminato. Ero fuori.

Dalla grotta venne un tonfo violento che mi ricordò che non avevo tempo da perdere. Iniziai a cercare freneticamente qualcosa che potesse chiudere l’apertura, provai a smuovere le rocce lì attorno ma quelle piccole abbastanza per essere trasportate non servivano a niente e quelle grandi abbastanza da tappare il buco erano inamovibili. Mi guardai attorno e vidi che più in basso, ai piedi del vulcano, crescevano cespugli e arbusti che avrei potuto sradicare e trasportare con facilità, ma erano troppo lontani, mi ci sarebbe servita forse un’ora tra la discesa e la risalita, un tempo troppo lungo per lasciare il mio compagno da solo. Guardai verso la cima del vulcano e vidi il ruscello.

Era un flusso d’acqua piccolo e costante, che nasceva chissà dove dalla sommità del vulcano e prima di raggiungere la pianura svaniva tra le rocce per poi scaricarsi in quella stessa galleria da cui ero appena spuntato. Tutto il percorso di questo ruscello era costeggiato di piante e arbusti, dalla cima nascosta fino al punto in cui l’acqua spariva nel terreno. Corsi in quella direzione, raggiunsi quella piccola macchia e iniziai a lottare contro un alberello. Il tronco spesso come il mio polso, aveva una gran chioma ricca di bacche viola, grandi come l’occhio di un cervo. Sarebbe stato un ottimo tappo, e con facilità avremmo potuto bloccarlo nella strettoia, e magari ricoprirlo di pietre. Avrebbe funzionato. Mi buttai con tutto il mio peso contro quel povero arbusto per spaccarlo e trascinarlo da Moliabre, e l’albero iniziò a cedere e scricchiolare. Ancora un momento e si sarebbe spaccato. Poi mi arrivò una sassata.

La pietra mi colpì alla schiena e mi voltai d’istinto alla ricerca del nemico, ma non vidi nessuno attorno a me. Servì una seconda sassata per farmi alzare lo sguardo e vedere due nativi che, senza peso, voltaggiavano nell’aria. Uno aveva ancora il corpo scomposto come chi ha appena lanciato qualcosa, l’altro sotto i miei occhi si produsse in una picchiata che lo portò a sfiorare il terreno, e al punto più basso di quella parabola con gran precisione afferrò un altro sasso, per poi tornare in quota senza rallentare un istante. Erano due giovani uomini, poco più che bambini, e nudi, le loro pelli brune e tese su corpi magri e guizzanti. Mentre quello che era appena sceso in picchiata si apprestava a scagliare un’altra sassata l’altro scendeva per rifornirsi di proiettili, ed entrambi ridevano con innocenza, come bambini davanti a un balocco.

Cercai rifugio come potevo dietro la chioma di quello stesso alberello che stavo cercando di abbattere, ma i miei assalitori avevano gioco facile a stanarmi, e un nuovo proiettile mi fece capire che non potevo restare lì. Quello che mi aveva colpito alla schiena doveva essere grande come l’uovo di una gallina, ma la pietra che si schiantò davanti ai miei piedi con gran fracasso era grande come la testa di un bambino. Un colpo del genere sarebbe stato più che sufficiente per stordirmi e consegnarmi al nemico.

Tentai la fuga risalendo il corso del torrentello, trovando riparo di arbusto in arbusto, senza però che nulla mi offrisse una vera difesa. A posteriori il loro piano mi appare chiarissimo, ma in quel momento non potevo sapere che mi stavano spingendo in alto, verso il cratere e lontano dal mio compagno. Forse non stavano nemmeno cercando di colpirmi, e in effetti a parte la prima sassata nessun altro proiettile centrò il bersaglio. Ma immaginatemi su quel crinale, stanco, spossato, affamato, inseguito da quegli esseri assurdi, inconcepibili nei criteri dell’Arte, che mi bombardavano con malizia. Forse non fui abbastanza lucido ma, tant’è, se quella era una trappola vi caddi in pieno. Confesso che la cima del vulcano era da subito la mia meta, anche se non volevo arrivarci così, di fretta, senza pianificazione, e abbandonando un compagno in una situazione difficile. Ad ogni buon conto, giunsi in cima.

Vi arrivai col fiato mozzo e la vista offuscata, e sotto un attacco aereo talmente violento che mi accorsi solo all’ultimo istante che il terreno era finito, che la processione purpurea di roccia dietro ad altra roccia si era interrotta e che avevo trovato la sorgente. La sorgente del torrentello che permetteva alla vegetazione di crescere anche su quella roccia nuda, certo, ma anche la sorgente di altro. Di tutto, azzarderei.

Davanti a me sedeva, placido, un lago. Lo osservai appollaiato in equilibrio precario su una parete di roccia sottile e molto regolare, il confine di un cratere che tracciava un cerchio perfetto, largo forse un centinaio di braccia, e pieno di un’acqua limpida e oltre misura trasparente, tanto che sotto di me potevo vedere ogni dettaglio della roccia vulcanica – se davvero di vulcano si trattava, che sull’isola non incontrai mai il nero del basalto né il grigio del tufo.

Perdonerete se insisto sui dettagli, ma voglio dipingervi un quadro chiaro almeno nei pochi elementi su cui ho certezza. Il cratere sembrava artificiale. So che nessuna opera umana potrebbe compiere un’impresa tanto maestosa, ma quella fu la mia impressione. Troppo regolare, troppo perfetto. Conoscete il modo di operare della natura, essa procede a balzi e ripensamenti, e ha orrore per le forme geometriche pure. Ebbene osservando quella concavità e quel lago cristallino che la occupava ebbi la sensazione di guardare il prodotto di un artigiano, o meglio ancora quello di un bambino, a cui è stata affidata della creta e che abbia provato a modellare un vulcano, senza però averne mai visto uno.

Apparvero altri nativi. Uscirono da aperture nel fianco del vulcano, fessure celate al mio occhio ma che immaginavo non dissimili a quella da cui io stesso ero spuntato, ed erano tutti fradici d’acqua, grondavano come chi abbia appena fatto un lungo bagno, e i loro passi sulla roccia purpurea erano viscidi. Realizzai in quel momento che gli unici nativi asciutti che avessi mai visto erano quelli aerei, mentre tutti gli altri stavano in acqua, o ne erano usciti per breve tempo e poi rapidi vi tornavano, come durante l’assalto alla Timorazza. Anche in quell’occasione i nativi grondavano.

Ero circondato. Avevo ancora qualche momento, gli assalitori avanzavano con una certa fatica su quella roccia scoscesa e nuda, ma mi fu subito chiaro che non avevo via di fuga. Erano forse venti nativi, forse di più, un numero inaffrontabile nelle mie condizioni, disarmato com’ero, solo com’ero. Si avvicinavano a ventaglio e mi trovai inchiodato, il nemico davanti, il lago alle spalle, due sentinelle aeree che spiavano dall’alto e non mi lasciavano vie di fuga. Valutai di gettarmi nel lago, ma avevo ben visto le capacità di nuoto degli abitanti dell’isola, ben superiori alle mie. Una lotta in acqua sarebbe stata breve e fatale.

Disperato, mentre già i primi nemici arrivavano a portata, mentre già potevo vedere il bianco dei loro occhi, arretrai fino al bordo ultimo dell’acqua, il confine dello stagno a meno di una spanna dai miei piedi, e quando proprio fui certo di non avere altre possibilità afferrai l’uovo spirituale e Comandai.

Spero di essere stato in grado di spiegare quanto fossi disperato, quanto temessi per la mia vita, e quanto le circostanze mi avessero forzato la mano. Appena qualche minuto prima, nella grotta allagata, Comandare lo spirito dei serpenti aveva reso i nativi mansueti, anche se non aveva senso e non poteva neanche succedere, stando alle regole dell’Arte. Epperò l’avevo visto succedere, e anche senza comprendere a pieno i meccanismi sottostanti sapevo di aver bisogno di tutto l’aiuto che potevo ottenere, così feci il vuoto dentro me, per quanto possibile, e lasciai entrare lo spirito. Era una mossa disperata e la feci con disperazione.

Potete ben immaginare quello che successe: subito persi il controllo. Lo spirito invase il mio tsolo come un fiume che abbia rotto gli argini. Non ebbi modo di contenerlo, non riuscii a pensare a nulla, non solo a usare i comandi, o a respingerlo, la mia mente fu proprio annichilita e per un istante fatale mi sentii come si deve sentire un sasso, come si sente un volume d’aria. Venni travolto e persi coscienza.

Mi è difficile proseguire il racconto, ora. Ricordo degli sprazzi, singoli frammenti di un quadro che temo resterà per sempre incompleto. Ve li riporto nell’ordine in cui mi sono sovvenuti, cercando di essere un narratore distaccato di quelli che potreste ben considerare alla stregua di sogni, o delle visioni indotte dal fumo di certi incensi esotici che si dice possano annebbiare le menti. Come sempre, ho fiducia che il vostro luminoso intelletto possa portare luce laddove io brancolo. Ecco ciò che ricordo.

Galleggio con dolcezza nell’acqua immobile, il mio corpo orizzontale come se fosse fatto di legno. L’acqua aderisce a me come lo stampo di un ceramista, nuca, schiena, natiche, polpacci, metà esatta del mio corpo è immersa nel liquido, che mi sostiene. Non ho né caldo né freddo, l’acqua ha esattamente la mia stessa temperatura. Sopra di me il cielo è una campitura cobalto, omogenea, screziata solo dal volo altissimo di un albatros bianco, che in silenzio compie dei cerchi.

Sono su una piattaforma marmorea, circolare. Un tempo dovevano esserci delle colonne e una stanza cilindrica, ma ora è tutto divelto, le colonne sono spezzate, del tetto non rimangono che frammenti. È il mio tsolo, in rovina.

Sono in un deserto spaccato dalla siccità. Attorno a me ci sono serpenti, tantissimi, infiniti, fin dove l’occhio può arrivare, fino all’orizzonte. Ne afferro alcuni, provo a raccoglierli, ma si contorcono e mi scappano dalle mani, mi mordono, sono incontenibili. Quelli a terra si allontanano ciascuno in una sua direzione, mi lasciano solo, irrimediabilmente solo, in quel posto arido, arso dalla sete.

Sono un neonato in una culla. Una donna bellissima si china su di me e sorride. C’è qualcun altro con lui, un marito di terra e legno. L’uomo allunga una mano sopra di me, e nella mano stringe un pugnale di roccia purpurea. Vuole uccidermi. La donna lo ferma, lo bacia, lo allontana.

Mi incammino nel lago, dalla sponda, fino a quando l’acqua mi raggiunge i genitali, l’ombelico, il petto. Procedere è faticoso perché l’acqua è densa come miele, i miei movimenti provocano delle onde morbide che impiegano minuti per appiattirsi. Faccio ancora un passo, l’acqua ora mi arriva al collo. Faccio ancora un passo.

Sono ancora nella culla, e la donna bellissima si accorda con l’uomo di terra e legno, lo fa nascondere, tendono una trappola. Poi si mette alla finestra e intona un canto dolcissimo, amoroso, per attirare a sé l’amante, che infatti arriva. Proprio sotto la finestra della donna scorre un canale, e l’amante arriva su una piccola barca, remando, facendo gesti plateali d’affetto, porta le mani al cuore e poi al cielo, verso la finestra dell’amata. È maestro Filippo.

Maestro Filippo mi afferra per le spalle e mi scuote. Siamo entrambi in acqua, sulla sponda del lago, mi scuote e mi prende a schiaffi e grida delle parole, vicinissimo alla mia faccia, ma non capisco, non lo sento. Non sono sordo, ma sento solo l’acqua, il rumore dell’acqua. Gocce, sciabordio, il rumore che fa l’acqua quando è versata in una brocca. Odo solo quello.

Nuoto senza peso, immerso in un’acqua che non è acqua, illuminato quando dovrebbero esserci tenebre, tiepido quando dovrei congelare, respiro quando dovrei annegare, fluttuo e mi sposto assieme ad altri che fluttuano e si spostano e tutti danziamo attorno alla sorgente, un qualcosa che non ha forma che la mia mente possa circoscrivere. Forse è un cuore.

Moliabre che bestemmia, catturato, sollevato, graffiato e percosso da decine di mani. Moliabre che sputa, si dimena, piange, chiede pietà, si libera, viene riacciuffato, sanguina dalla bocca, dal naso, dalle orecchie, da decine di tagli e morsi e graffi, i nativi gli strappano i vestiti e ridono e lo portano in trionfo, come si fa con la cacciagione, come con il cinghiale finalmente caduto.

Una creatura che subito riconosco, lo spirito della verticalità, quell’incrocio tra una scimmia e un caprone, ora ha smesso di essere un’idea, è qualcosa di fisico, tangibile, straordinariamente presente. Salta sul posto, percuote la terra con i suoi pugni possenti, ruota su se stesso e si guarda attorno e scuote il grande capo cornuto. Afferra una catena che giace a terra e la tira, e la catena si tende e mi trascina, è legata a me, c’è un anello d’acciaio attorno al mio collo, e la creatura corre e scappa e trova una montagna e si arrampica e io posso solo seguirla e mi trascina e la roccia mi ferisce e non potrò mai essere veloce come lei, forte come lei, agile come lei, chiedo pietà, mi arrendo, vengo trascinato, la mia pelle gratta sulle rocce, le mie mani a terra, picchio i denti, sento il sangue, cedo, dico ciò che si aspettano che io dica. Dichiaro la mia inferiorità. Dalla cima della montagna la donna bellissima e l’uomo di terra e legno mi osservano. Lei fa un cenno col capo, gesticola verso di me, porta avanti la mia causa. Lo spirito incarnato prosegue la sua scalata.

Maestro Filippo, raggiante, sale le scale per raggiungere la sua amata, che lo attende radiosa in camera da letto. L’uomo di terra e legno osserva nascosto dietro una tenda. È una scena di teatro, tutti i gesti sono esagerati e parossistici. Maestro Filippo si lancia verso la donna bellissima, si inginocchia, le dichiara il suo amore, le chiede scusa per un antico torto. Sento pronunciare il nome della donna, Alma. Lei lo fa sollevare e lo accoglie tra le sue braccia. Si baciano. Poi lei si avvicina ad un mobile, afferra una bottiglia di vino, versa due coppe. Col corpo nasconde quello che sta facendo ma noi, gli spettatori, assieme all’uomo di terra e legno vediamo che in una coppa versa anche del veleno. Poi si volta verso maestro Filippo, sbottona il primo laccio del suo corsetto, prende le coppe di vino, si avvicina.

Sono in un grande tribunale, l’uomo di terra e legno siede su uno scranno altissimo di pietra purpurea, indossa una toga, mi guarda. Il suo volto è disumano, appena abbozzato, un manichino cattivo senza occhi, il disegno preparatore di un artista indeciso. Di fianco a me, al banco degli imputati, siede Moliabre, ferito, stordito, lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé. La donna bellissima, Alma, indossa anch’essa la toga dell’avvocatura, e viene al mio banco. Porta con sé due grandi mucchi di catene, ceppi più che sufficienti a legare un uomo. Posa una catena davanti a me e una davanti a Moliabre, che registra a malapena l’evento, il suo sguardo perso nel nulla. È una scelta.

È una scelta, e non mi sono chiari i dettagli, ma mi è chiaro il senso. Devo scegliere se dividere la pena equamente e accettare la prigionia, per me e per il mio compagno. Oppure no. Metto le mani sui ceppi, mi aspetto che le catene siano fredde, ma in realtà le trovo tiepide, né gelide né bollenti, esattamente della stessa temperatura della mia pelle. Sento dei mormorii alle mie spalle, mi volto e l’aula del tribunale è piena, quasi tutti nativi, nudi, seduti in terra e che sghignazzano. Con loro ci sono anche altre facce, vedo Griso, disperso la prima sera; vedo Folgore, che era stato rapito; vedo finalmente Mercionnio, mio unico confidente, che mi saluta sorridendo, e quando solleva una mano vedo che al polso ha un ceppo identico a quelli che giacciono sul bancone davanti a me. Sembra felice. Mi volto e Alma è bellissima, la sua pelle perfetta, i capelli una cascata castana e spumosa. Sarebbe una dolce prigionia, lo so. Ho le mani sulle mie catene. Faccio un respiro in quell’aria senza tempo e le spingo a sinistra, sopra quelle di Moliabre. Che paghi lui per entrambi. Alma si volta verso il giudice, impassibile nel suo volto disumano. La creatura di terra e legno solleva il martello di pietra purpurea e lo batte, una volta.

È notte. Sono circondato dai nativi, che ridono e mi accarezzano. Sono nudi e non provano vergogna della loro pelle esposta. Mi toccano con sensualità, uomini e donne. Io vedo il mio corpo reagire e sento il calore di quelle mani, ma è tutto indiretto, come se qualcuno mi stesse raccontando le sensazioni che provo. Sento sulle labbra il sapore di un frutto acidulo, sconosciuto, che mi pizzica il naso. Sento che sto penetrando una donna.

È giorno. Sono circondato dagli alberi, fittissimi, eppure passo attraverso essi con naturalezza, come se conoscessi dei sentieri nascosti. Accanto a me c’è Mercionnio. Sorride, mi dà un involto che ha preparato per me. Lo ringrazio. So che è l’ultima volta che lo vedrò. È felice. Si volta, in un attimo sparisce nel verde, lo immagino che corre verso la pianura.

Sono sulla scogliera di Malu Malu, vertiginosa sotto di me. La foresta alle mie spalle sta tornando impenetrabile, so che non potrò tornare indietro. Davanti a me c’è un salto di centinaia di braccia che finisce nella spuma dell’oceano. Cado.

~

Questo è tutto ciò che ricordo. Non posso garantirvi, luminosissimo maestro, che l’ordine in cui ho presentato le visioni sia corretto, come non posso garantirvi di aver riportato tutto. Vedete anche voi, il racconto ha carattere onirico, e così come si fa con i sogni andrebbe considerato con attenzione, ma anche con cautela. Se voi finirete per considerare quello che ho appena scritto come i deliri di una mente provata da fatica, sete e fame, sappiate che non mi opporrò. A volte io stesso ho dei dubbi sulla natura di ricordi, giacché considerarli come una cronaca fedele di quanto realmente accaduto apre più domande di quante risposte io possa fornire. Inoltre, fatalmente, le risposte mi portano lontano dall’ortodossia dell’Arte. Chi era questa Alma, che tanto sembrava conoscere maestro Filippo? Chi, o cosa, era l’essere di pietra e legno, che per ruolo e potere pareva centrale nella gestione dell’isola? Che fine hanno fatto i marinai catturati? E Moliabre? Come sopravvissi alla caduta in mare da centinaia di braccia di altezza?

C’è solo un ultimo fatto di cui vi devo raccontare. Fui avvistato il giorno dopo la mia partenza, nudo, galleggiante e semisvenuto, nell’acqua tra gli scogli ai piedi di Malu Malu. Fu mandata una scialuppa a salvarmi e fui portato a bordo. Di Moliabre non c’era più traccia e Franco dell’Orso decise che quella era la soluzione migliore per tutti. Diede quindi ordine di dispiegare le vele e la Timorazza riprese il mare per allontanarsi da Malu Malu, questa volta per sempre.

Mi fu necessaria l’interezza di quella giornata, e una notte di sonno, per riprendere piena coscienza e tornare padrone di me. Non potevo dire di avere un malessere, ma ero stanchissimo, e in parte ancora stordito, come dopo aver esagerato con il vino. Quanto fui finalmente di nuovo lucido scoprii che quando fui raccolto in acqua avevo con me un involto, un fagotto avvolto in ampie foglie oleose e impregnate di una linfa vegetale che le faceva aderire saldamente tra di loro, tanto da aver conservato asciutto il contenuto. Dentro scoprii, con mio enorme piacere, che erano conservati i miei pochi beni, che temevo perduti per sempre: le mie carte, che come potete ben vedere si sono salvate; il mio parapneuma; e da ultimo la mia gorgiera di cuoio e legno, che mi avevate regalato. Tutti questi oggetti erano avvolti nei miei vestiti, la mia casacca e i miei pantaloni, giacché come vi ho detto fui trovato nudo in mare. Un’ipotesi potrebbe essere che io abbia trovato in qualche modo i miei averi e li abbia messi in salvo, proteggendoli con i miei vestiti per evitare che le lettere che vi ho scritto si bagnassero, e poi ancora abbia fatto tesoro della vegetazione esotica di Malu Malu, trovando quelle foglie impermeabili. È un’ipotesi traballante, lo ammetto, e non ho memoria di averlo fatto, anche se la mia memoria non è affidabile su quanto accaduto. L’alternativa è che qualcuno mi abbia aiutato e si sia preso cura di me e dei miei averi.

Ma non è questo il fatto di cui vi volevo parlare. Nell’involto, vedete, trovai anche una pietra della stessa varietà purpurea che costituisce l’ossatura di Malu Malu. È una pietra grande come una prugna, e levigata fino a renderla liscia e lucida. È in forma d’uovo, troppo perfetta per poter essere un ciottolo naturale. Tale pietra era avvolta in un panno sdrucito, e su tale panno una mano incerta aveva tracciato in verde una rosa dei venti, forse usando delle foglie tritate come rozzo inchiostro.

Resistetti tre giorni. Tre giorni di dubbi, curiosità, paure. Quella pietra, lì, quell’uovo, implorava di essere Comandato, o che almeno provassi a farlo. Una parte di me si voleva convincere che la cosa giusta da fare era anzi subito Comandare, perché era di gran lunga probabile che l’uovo fosse vuoto, un ninnolo, un ricordo curioso ma nient’altro che quello. Non avevo ricordi di come l’avessi ottenuto, e la calligrafia sul panno non mi pareva la mia, e quindi in qualche modo doveva essere un lascito della mano che aveva messo da parte i miei averi. Forse il povero Mercionnio che, miseramente, non ero riuscito a salvare? In verità per lui il mio cuore era sereno, senza dubbio a causa delle visioni, dei sogni che me lo avevano mostrato sorridente e felice in mezzo ai nativi. Capite bene, non è certo un esercizio di razionalità, epperò era difficile mettere da parte la sensazione che egli non abbia incontrato un destino terribile. Devo sforzarmi di ripetere che no, l’ho abbandonato su un isola remota, e dovrei sentirmi in colpa.

Tre giorni, e fu chiaro che ci eravamo perduti. Franco dell’Orso nascondeva a fatica la disperazione, l’umore della ciurma stava precipitando, con tutte le perdite subite gli uomini erano appena sufficienti per portare la nave e quindi costretti a turni molto lunghi. Senza capitano e secondo nessuno sapeva davvero portare la nave. Non abbastanza per attraversare un oceano.

Fatalmente, tutti si rivolsero a me. Ero l’unico sapiente, l’ultimo barlume di speranza, l’ultimo eco di un’autorità perduta. Io sapevo leggere e scrivere e far di conto, e questo agli occhi dei marinai doveva bastare. Poco importa che usare i sestanti e leggere le carte nautiche sia una faccenda misteriosa, per i marinai era mio compito, e anche se non osavano dirlo a parole leggevo nei loro volti che era responsabilità mia risolvere la situazione ed evitare che diventassimo un relitto vagante, sconfitti da fame e sete quando le provviste fossero finite, destinati a vagare fino a quando una tempesta finalmente avesse consegnato le nostre ossa ai pesci.

Resistetti tre giorni e poi Comandai, per disperazione. Ebbi la decenza di esercitarmi prima, senza uovo, feci il vuoto e visitai il mio tsolo, trovandolo simile a come era sempre stato, eppure diverso. Più grande, forse, e di un marmo più scuro. Succede nell’architettura e nella pittura, per decenni le opere seguono uno stile codificato fino quando non c’è più niente di originale e ogni nuova opera è una copia di infinite precedenti. Allora, quando l’occhio è annoiato, delle varianti mai tentate iniziano a trovare il loro spazio, ciò che prima era difforme e scartato ora è apprezzato e desta una curiosità a lungo assopita. Ecco. Il mio tsolo era cambiato. Era sempre solido, sempre in grado di ospitare uno spirito, e anzi mi pareva più grande, più maestoso. Ma qualcosa nel suo stile era irrimediabilmente evoluto.

Comandai. Il Canone sconsiglia di utilizzare uova spirituali sconosciute, giacché il mago potrebbe invitare spiriti troppo possenti e non essere poi in grado di contenerli. Ma la situazione imponeva di tentare tutte le strade e, in fondo, davanti a un uovo sconosciuto prima o poi qualcuno deve compiere quel passo. Orgoglio. Mi sentivo sicuro.

Indossai la gorgiera di cuoio e legno e venni trafitto dai ricordi. Il giorno in cui me l’avevate donata, la prima volta che davvero Comandai, la prima volta che rischiai di perdere il controllo e voi eravate lì, luminosissimo maestro, ad aiutarmi.  

Presi l’uovo tra le dita. Lo osservai per un’ultima volta da vicino, la pietra purpurea si rivelava essere un qualche tipo di marmo. Certamente non una pietra preziosa, non mancava però di una sua eleganza, percorsa com’era da lievi screziature più scure, come tante onde, che la attraversavano in diagonale. La posizionai nell’alloggiamento della gorgiera e spinsi il meccanismo, fino a sentire il contatto della pietra nell’incavo della gola. Feci il vuoto e aprii il mio tsolo allo spirito.

In prima battuta non successe nulla. Di solito gli spiriti si precipitano dentro come cani affamati, ma passarono cinque respiri, poi venti, e il mio tsolo restò vuoto. Durante l’addestramento mi avete fatto esercitare più volte con uova inerti, semplici pezzi di roccia che non contenevano nulla ma che servivano appunto ad abituarmi alle sensazioni e imparare le procedure. E in quel caso ricordo bene la sensazione di solitudine, quando è chiaro che non c’è niente di niente, come far scattare una balestra senza aver caricato il dardo. Quel giorno, nella mia cuccetta sulla Timorazza, non era così. Sentivo che c’era qualcosa, ma questo qualcosa restava a lungo fuori dal mio tsolo, fuori dalla mia portata. In attesa, forse? 

Il Canone sconsiglia di Comandare spiriti che mostrino comportamenti anomali, e già stavo risolvendo di interrompere quel tentativo e magari provare a spaccarmi la testa sulle carte nautiche con le mie sole forze. Magari avrei compreso qualcosa.

Poi lo spirito entrò, con estrema cautela. Dal mio punto di osservazione privilegiato osservai lo spirito farsi avanti, esplorare quello spazio nuovo, e d’improvviso scoprii di saper leggere le carte nautiche. Aprii gli occhi, mi precipitai nel castello di poppa, dove trovai Franco dell’Orso con il capo tra le mani, e iniziai a prendere appunti, misurare distanze, far di conto sotto lo sguardo meravigliato del nuovo capitano. Afferrai il sestante che giaceva inutilizzato in un cassetto e corsi fuori, a guardare il sole. Nonostante il beccheggiare della Timorazza in pochi minuti fui in grado di stimare la latitudine. In meno di mezz’ora avevo fatto il punto, non eravamo più perduti, avevamo una rotta. Franco dell’Orso fu travolto e stordito, volle abbracciarmi, battè la campana per annunciare la notizia, ma io rifuggii quella gloria, scappai nella mia cuccetta e diedi ordine di non disturbarmi, completai in fretta la procedura ed espulsi lo spirito, riportandolo nell’uovo.

La navigazione procedette bene, per quanto insidiosa, per quanto faticosa. All’andata impiegammo poco più di due mesi, sessantatrè giorni dalla madre patria a Malu Malu, ma al ritorno con le correnti ora favorevoli ci bastò poco più della metà del tempo. Ieri abbiamo avvistato la costa, e ora si tratta di fare piccolo cabotaggio fino a quando non torneremo a casa, in patria. Ad una piccolo borgo di pescatori ho pagato con piacere per comprare un po’ di carne per la ciurma, tre capre che abbiamo macellato sul ponte. Il pericolo è passato, il viaggio è concluso, questa sarà la mia ultima lettera. Resta solo una cosa da aggiungere.

Durante il viaggio dovetti Comandare più volte, per rifare il punto e correggere la rotta. Lo feci sempre con grande sgomento, e in fretta, di modo da non prolungare quell’esperienza che trovavo odiosa e ripugnante. Come avrete notato non ho descritto lo spirito che, a conti fatti, ci ha salvati. Lo faccio ora, quasi come un post scriptum. Ho scritto che lo spirito entrò nel mio tsolo con grande diffidenza, come un animale selvatico che esplori l’aia di una cascina. In effetti la prima cosa che osservai fu un suo piede che usciva dall’ombra, seguito dal resto, una figura cauta che esplorava il marmo del mio tsolo. Dal mio punto di osservazione privilegiato potei osservare lo spirito nella sua interezza: umanoide nella figura, era avvolto da molti stracci, e cenci, e soprattutto catene. Braccia, gambe, collo, la creatura era appesantita dal metallo che avvolgeva ogni suo arto. Anche il volto era coperto, gli anelli spiraleggiavano molte volte attorno al capo e lasciavano intravedere a malapena un occhio, spaventatissimo. Se non violasse tutte le regole dell’Arte vi scriverei che si trattava di un uomo. Se non fosse un abominio che mi torce lo stomaco potrei anche pronunciare il suo nome. Le mie notti sono tormentate dalle immagini di quel processo, e dalle conseguenze della mia scelta, dalle catene che io stesso spinsi lontane da me. Non oso aggiungere altro e invoco la vostra pietà, luminosissimo maestro. Abbiate pietà per il vostro studente perduto, per le mie molte mancanze, e per le conseguenze terribili di ciò che ho fatto. Ogni notte è un incubo, ogni giorno un’angoscia. Abbiate pietà di me, mio maestro. Abbiate pietà.

L.

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