In questo posto la giustizia non prevede la connessione immediata tra reato e condanna. Dopo il processo, ad ogni colpevole viene assegnata una targa con la descrizione del reato – esso sia furto, assassinio o tradimento dello stato o della famiglia. Il colpevole è poi inserito in una classifica, lunghissima, che elenca tutti coloro che si sono macchiati di un qualche reato e sono poi rimasti incagliati nelle maglie della giustizia. È una classifica per gravità: in cima ci sono coloro che hanno compiuto i reati più gravi, in coda i reati minori. A capodanno, per decidere le pene, si consulta un aruspice.
Le interiora dell’‘animale sacrificato rivelano, all’occhio esperto dell’ufficiante, una certa quota di pene. “Affinché ci sia giustizia nel mondo” recita la formula gridata dalla cima della piramide “i cieli ci chiedono” e segue un certo numero di impiccagioni, frustate, dita mozzate, occhi cavati e simili punizioni fisiche. I cieli non richiedono mai carcere, ritenuto generalmente un’idea immorale.
Si scorre quindi l’elenco: i primi, coloro che hanno compiuto i reati più efferati, vengono giustiziati, fino a raggiungere la quota prescritta. Si procede poi lungo la classifica, con mutilazioni e torture di vario tipo, fino a quando ogni quota è colma. Tutti gli eventuali avanzi in coda vengono graziati. Il primo dei graziati viene per tradizione considerato uomo buono, benvoluto dagli dei, e presiederà per tutto l’anno le cerimonie religiose (sempre che non sia ricaduto nei reati, condizione questa – la recidiva – considerata molto grave e valevole di un peggioramento considerevole della posizione in classifica).
Il pensiero comune, in questo posto, è che il sistema sia molto giusto, e pare che nessuno voglia cambiarlo.
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