Questo posto è una comunità rurale di poche centinaia di anime aggrappate a una montagna dura e parca di frutti. Gli abitanti sono vagamente consapevoli dei confini: a poche ore di cammino dal villaggio il posto semplicemente finisce, si sbatte contro un diaframma gommoso e poi inizia l’interposto. Questo fatto, straordinario ad una mente curiosa, non pare strano ai locali, forse perché per tutta la loro vita è sempre stato così, forse perché le loro giornate sono riempite dal durissimo lavoro agricolo. Campi e bosco, stalle e mulino, tutto è faticoso, la sera sono stanchi, impolverati, e non si fanno domande. Quello che amano fare, invece, è sedere intorno al fuoco ed ascoltare le vicende dei morti.
Il posto sarebbe di per sé poco interessante, una piccola comunità autoreferenziale e senza immaginazione, ma c’è questa cosa della Portinaia dei Morti che la rende unica. La Portinaia dei Morti ricopre un ruolo importante: è assieme memoria storica, mezzo di comunicazione e intrattenitrice. L’espressione nativa non si traduce bene, è una roba tipo “colei alla quale viene depositato il compito di vegliare sulle vicende del nostro sangue per generazioni e generazioni” e cose simili, ma detto nel loro dialetto strettissimo pieno di umlaut e scaracchiate e quindi ho preferito accorciare. La Portinaia dei Morti la notte dorme, e quando dorme sogna, e quando sogna sogna i morti. Sono i morti locali, né più né meno degli antenati dei vari contadini: padri, fratelli, zie e figli portati via da incidenti, malnutrizione, tumori e lupi. Nei sogni della portinaia i morti si fanno i fatti loro, e la portinaia li osserva, li ascolta, a volte ci parta, e poi riporta i sogni ai locali. A volte ci sono messaggi personali, una sorta di faticosissimo passaparola, molto più spesso i morti fanno cose bizzarre, molto lontane dalla quotidianità rurale del posto, attività smaccatamente oniriche che però vengono accettate dal popolo con remissività bovina. È credenza accettata che la portinaia sia un tramite, e quello che vede è un assaggio dell’aldilà. Spesso i racconti fanno riferimento ad una grande casa dorata – il folklore non è riuscito a produrre un palazzo né un castello, e si accontentano di estendere l’esperienza quotidiana. La casa dorata è sostanzialmente il paradiso, anche se i morti entrano ed escono e non paiono avere vincoli particolari. In questi casi la Portinaia sta spesso sulla soglia, e guarda la gente passare, e dai movimenti ricostruisce la natura delle attività. Come una portinaia.
All’inizio non sapevo che pensare: la Portinaia poteva essere una truffatrice, o lei stessa essere convinta della veridicità delle sue visioni. Il suo ruolo è rispettato, e centrale, tanto che lei conduce un’esistenza marginalmente meno dura delle altre, ma pare non chieda tributi o venerazione. Mi ero detto che l’esatta natura delle convinzioni della Portinaia non fosse, però, così importante, e stavo per lasciare il posto, quando assistetti a questo scambio: si è nella piazza centrale, il cielo sopra di noi è coperto di stelle vivissime, il centro della piazza è occupato da tronchi d’albero in attesa di venire ridotti in ceppi da ardere, e da un lato si è formato un capanello attorno ad un piccolo fuoco. La Portinaia (vestito a quadri bianchi e rossi, scialle) sta parlando con Murzio il fabbro (grosso, quasi cieco, molti peli in faccia) e Marilena (contadina, sfregiata da un cane, piuttosto generosa di forme) del loro defunto bambino, Corfio. I locali ascoltano con interesse, a qualche passo di distanza.
Nel racconto, Corfio gioca sulle scale della grande casa dorata. Pare che la casa abbia un profluvio di scalinate, scaloni e pianerottoli, e spesso i bambini ci giocano. Nel racconto, Corfio gioca a rotolare giù dagli scalini, solo per fermarsi molti piani più in basso, ridere, e risalire. Va notato che l’essere morti apre possibilità ludiche normalmente inaccessibili. Marilena ha gli occhi gonfi di felicità, Murzio scuote il capo bonariamente. Poi nel racconto compare un altro personaggio. “È un uomo alto, dalla pelle scura, vestito di pochi abiti dorati”. Il pubblico si fa silenzioso. “Indossa un copricapo di piume colorate, e ha gli occhi stanchi. Corfio, ai suoi piedi, lo guarda, e l’uomo si china su di lui. Lo prende in braccio ed iniziano a salire le scale.”
“Il mio bambino è spaventato?”
“No. L’uomo non gli piace, è un forestiero, ma Corfio non ha paura, sa che non può fargli del male. I modi dell’uomo sono degni e misurati, e mentre sale continua a guardare la cima. A metà scala Corfio vuole scendere, e l’uomo lo deposita con dolcezza. Allora Corfio si ricorda delle buone maniere e si presenta. L’uomo, senza scomporsi, gli porge la mano e dice il suo nome. Una roba strana. Quitzacoatl.”
Quitzacoatl. L’imperatore Quitzacoatl. I vestiti dorati, i modi, gli occhi stanchi. È lui. Cosa ci fa in questo racconto?
Resto in questo posto per il massimo del tempo che mi è concesso: tre mesi. Osservo la Portinaia, anche di nascosto. Una volta mi decido, la rapisco, spendo anche un bel po’ di vertigine per garantire un’esperienza aggressiva. Niente. Non sa niente. O meglio, non sa nient’altro che quello che racconta. Pare che siano davvero sogni. Quasi sempre vede gli avi locali, qualche rara volta forestieri – abitanti di altri posti, che sono l’unico a riconoscere – che però non le interessano e che tendenzialmente ignora. In tre mesi è successo altre due volte, e mai con persone che io abbia saputo collocare precisamente. Giunto alla fine dei tre mesi sono dovuto a malincuore andarmene, nonostante le molte questioni irrisolte.
AZIONE CONSIGLIATA: isolamento, studio.