EXPL 15: digrignare

Questo posto fa infuriare. Arrivo in una piazza e lo sento all’esofago, come l’incavo di un pugno: stringo la mandibola, la faccia si contrae, ho voglia di menare qualcuno. Davanti a me c’è un tizio in giacca e cravatta, abito grigio, valigetta, occhiali: mi guarda, lo guardo, e ci azzuffiamo. È doloroso e liberatorio. Apre correndomi incontro, ma ha anche la prontezza di scagliarmi in faccia la valigetta. Incasso il colpo leggero ma perdo l’attimo e mi è addosso: la forza dell’impatto mi manda schiena a terra e mi è sopra, pronto a disfarmi. Una vocina, lontanissimo nella mia testa, dice che potrei sbarazzarmi di questa minaccia con facilità, ma una voce molto più presente la mette a tacere: lancio le mani avanti, afferro il pugno che stava calando sul mio naso e lo devio, l’uomo si afferra la mano fracassata e io lo sbatto di lato, torno in piedi, lo prendo a calci. La sua camicia bianca si macchia di catrame e di asfalto, e qua succede una cosa importante: ho l’immagine chiara delle mie mani che afferrano la sua cravatta e stringono, la pelle tesa sul collo, le vene gonfie, le braccia che mulinano e gli occhi sempre più iniettati di sangue. Penso, per dirla tutta, ad ammazzarlo. Ed il pensiero mi nausea. Non c’è niente di etico, è proprio una cosa fisica. Mi gira la testa e mi allontano.

Barcollando, raggiungo un parcheggio. È il caos: auto messe di traverso, fuori dai segni, ammaccate, chiuse da altre auto, fari accesi, vetri sfondati. Al volante di una berlina gialla una donna sulla quarantina grida, furiosamente, il motore a mille e l’auto non cammina, lei grida con i denti vicinissimi al volante, sul sedile dietro c’è la figlia piccola, seggiolone di sicurezza e cintura extra, grida pure lei, la voce stridula mi arriva ovattata e vorrei prenderle a schiaffi entrambe, a lungo. Un sottile filo di fumo si alza dal cofano giallo, anche il motore è infuriato. Poco più in là tre tizi si stanno accapigliando, un grassone e due mingherlini, rotolano sulle auto e si riempiono di pugni – il grassone è un bersaglio facile, ma un mingherlino si prende uno schiaffone che lo manda letteralmente ad un paio di metri di distanza. Non capisco chi sta contro chi, sembra che tutti vogliano menare tutti, e anch’io sento il desiderio di buttarmi in mezzo, ma prima che riesca a partecipare il grassone crolla in ginocchio esausto, e un mingherlino – quello che si era preso lo schiaffo – riesce ad assestargli un calcio in piena faccia. Il grassone crolla a terra e cola sangue, gli altri iniziano a scappare e/o inseguirsi. Quando arrivo sul posto la lotta è finita, il grassone è inerme e io non voglio infierire, voglio lottare. Salgo sul tetto di un furgone come una scimmia, mi guardo attorno in cerca di una vittima, salto e sento qualcosa che mi riempie il cuore di gioia: dal furgone stesso, sotto i miei piedi, viene un ringhio sordo. È un orso.

Cerco di aprire il portello per far uscire l’orso e combatterci, ma non c’è abbastanza spazio. Il furgone è circondato da altre auto, proprio imbottigliato, e bisogna fare spazio. È un’operazione difficilissima, non tanto per gli aspetti pratici, ma perché ho così tanta voglia di menare l’orso che non riesco a concentrarmi, continuo a tornare indietro, battere sul cassone, l’orso grida e mi carica e impazzisce anche lui dalla voglia di azzuffarsi con me e ci sono queste cazzo di auto in mezzo, spingo, tiro, ma sono pesantissime e non sono sicuro di sapere come funzionino – la solita vocina lontanissima mi dice che sono perfettamente in grado di sbloccare questi automezzi, e che a dirla saprei ricostruirli da zero, senza fatica, ma io non l’ascolto e continuo a spingere e tirare malamente le automobili. Mi restano in mano gli specchietti. Attorno a me si forma una folla.

È una folla strana, nervosa, tutti si guardano stringendo i pugni, qualche spintone, qualche grido, ma più che altro mi guardano, li ho magnetizzati. Le attenzioni mi caricano, cerco e trovo qualcosa dentro di me che la vocina mi implora di non usare, e che uso con gusto. Do uno sguardo agli spettatori: sono uomini e donne normali, cittadini normali che se ne stavano andando a spasso, al lavoro, a fare compere. Io non ci bado e continuo il mio lavoro, che lentamente inizia a dare i suoi frutti. Le auto spostate diventano i gradini di un colosseo, al centro c’è il furgone da cui vengono grida e colpi sempre più minacciosi, io credo di aver capito come far funzionare questa cosa delle macchine, come spostarle con semplicità: ci si piazza di lato, dalla portiera, si mettono le mani sotto, e con uno strattone ribalto l’auto sul fianco. A questo punto basta spingere il fondo della macchina, che rotola sul tetto. I vetri si fracassano e il tetto si incassa un po’. Ora l’auto è facile da spostare, spingo a piene mani, prende velocità e fa le scintille. La solita vocina ora mi appare allarmata, insiste su qualcosa che non voglio ascoltare, vuole rovinarmi il gioco.

Quando sono finalmente pronto per aprire il furgone la folla mi venera come un dio. Gli spalti attorno a me sono brulicanti e tutti gridano il mio nome, che è strano perché non ricordo di essermi presentato, e so per certo che loro non possono saperlo. So per certo che non possono neanche pronunciarlo, a ben guardare, e a questo punto del rapporto credo sia cristallino che questo posto è una trappola, ed io ci sono caduto. Il cuore mi batte così forte che mi fischiano le orecchie, balzo contro il furgone ormai libero e letteralmente divelgo la portiera. La bestia mi è addosso. È enorme e sproporzionato, grottesco nelle sue forme di muscoli e pelo, un solo colpo di zampa artigliata mi dilania il petto, lo sterno si squarcia, le costole si spezzano, mi piomba sopra come un macigno e il suo fiato è cattivo e mi morde la faccia e mi strappa il naso e lo vedo attraverso il sangue lanciare un grido verso il cielo e venire acclamato, lui questa volta, come un dio, mentre io sotto le sue zampe enormi so che sto per morire divorato e il terrore a secchi mi intorpidisce e la vocina mi dice qualcosa ma non la sento, non la sento, non la sento: il muso dell’orso cala sul mio collo, le fauci mi strappano la carne, e muoio.

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