Questo posto è inclassificabile.
Arrivo su una strada di montagna accidentata e il percorso è obbligato: già faccio fatica stando sul sentiero di sassi sconnessi, il fuoripista mi offre solo macigni e rovi e distorsioni alle caviglie. L’unica scelta che ho è tra il salire e lo scendere, e mentre sono lì che pondero la situazione una pausa nel vento mi porta delle note, flebilissime, di musica da ballo. La valle attorno a me è brulla, spoglia, e assolutamente inospitale. La musica pare venire dall’alto, provo a seguirla per qualche passo e subito trovo in mezzo alla strada un guanto. È bianco, da signora, tessuto fine e ricamato. Ha un lieve odore di lavanda. Il messaggio è chiaro : mi chiedono di salire. Meno chiaro il mittente, e nessunissimamente chiaro quanto dovrei fidarmi. Nessuno dovrebbe sapere del mio arrivo, men che che meno potermi preparare un benvenuto. Proseguo guardingo, risalgo il sentiero, sbuffo per la fatica ed arrivo alla capanna.
La capanna è una robetta di legno, quattr’assi malmesse ma sorprendentemente sigillanti: dovrebbe essere piena di fessure, e invece non riesco a sbirciare dentro. Ci giro attorno grattandomi la testa e do ancora uno sguardo al paesaggio: il sentiero si ferma qui, la valle è tremenda e non ci cresce niente, sta per tramontare il sole e sento lontanissimo pure l’ululato di un lupo. Mi chiedo se il mio ospite abbia il gusto dell’ovvio o se sia solo un sempliciotto. Un sempliciotto potente, per mettere in piedi la scenografia, ma comunque un sempliciotto.
Dalla capanna viene la musica che avevo sentito, ora decisamente più forte. È un valzer pomposo, suonato da strumenti a corde e credo un pianoforte, o un clavicembalo, è difficile capirlo. Ovviamente la sorgente della musica è la porta. Ovviamente da sotto la porta spunta una sottile lama di luce. Ovviamente dovrei bussare. Ovviamente la capanna non ha senso: non è un luogo di abitazione, mancano segni di attività, non ci sono porcile e pollaio, non c’è segatura in terra – non c’è neanche comignolo, eppure a questa quota deve fare piuttosto freddo. Anzi: sta iniziando a fare freddo. Decido di stare al gioco e busso. La porta si apre, entro.
È l’ingresso lucido e luminoso di un grande palazzo. Sono accolto da un servitore in livrea dorata che vorrebbe in affidamento la mia giacca, solo che la giacca non ce l’ho e lui resta a guardarmi, perplesso. Il pavimento è in marmo candido e ai lati del corridoio dei supporti a colonna tronca reggono busti in pietra scura, facce che non conosco ma che già mi stanno antipatiche. Il soffitto è alto e regge dei lampadari fitomorfi, ogni bocciolo una fonte di luce indistinguibile. La musica ora è più forte, così come il cattivo odore di cibo e persone non lavate ma piuttosto generose con la colonia. Poco oltre un altro servitore, avvolto in una livrea ancora più elaborata, mi fa cenno di raggiungerlo e apre con fare tronfio una porta davanti a me: è una luminosa e accalcatissima festa da ballo, uomini e donne della nobiltà, incipriati, imparruccati, infagottati in abiti gonfi e pieni di strascichi, tutti che ballano e si occhieggiano e ridono. La sala è grande e chiassosa, le alte finestre lasciano intravedere uno scorcio notturno di giardini addobbati a festa, fa caldo, c’è ancora più cattivo odore e ancora più rumore. All’estremo opposto della sala quattordici musici fanno il possibile per farsi sentire sopra il chiacchiericcio. I lati della sala sono costellati di sedie dorate dallo schienale altissimo, di tavoli stracarichi di cibi colorati che nessuno pare interessato a mangiare, e dall’andirivieni operoso dei servitori. Il ciambellano, accanto a me, annuncia il mio arrivo battendo sul pavimento un voluminoso bastone:
“Esploratore 1458, dall’Impero”
Mi si gela il sangue nelle vene, nonostante la calura. So di non avere mai rivelato il mio numero dall’inizio della missione. Ho le gambe molli e mi butto nella ressa. È, ovviamente, un errore. In un istante sono trascinato in un turbine indomabile, mi afferrano le mani signore ridenti e signorotti ammiccanti, tutti paiono volermi far ballare e roteare, vengo schiacciato, strattonato, rivoltato, la musica è molto più incalzante di quanto pareva da fuori, manca l’ossigeno, fa caldo, perdo il controllo, mi affatico, e quando inizio finalmente a preoccuparmi è ormai troppo tardi: le gambe mi cedono, la vista mi si annebbia, inciampo nei miei piedi e crollo in ginocchio. Poi la musica si ferma, attorno a me si fa il vuoto, tutti tacciono e cala sulla sala un silenzio programmato. Fa il suo ingresso una dama vestita di lilla, che cammina lenta, mi si ferma davanti e mi guarda dall’alto della sua acconciatura multi strato: l’incarnato perfetto, labbra in tinta col vestito, ventaglio d’acciaio. Una mano è guantata, l’altra nuda, le unghie laccate del medesimo lilla. Mantiene lo sguardo severo fino a trasformalo in un’espressione comicamente corrucciata, che poi si scioglie in sorriso benevolo.
“Tutti gli uomini cadono ai miei piedi dopo avermi incontrato, ma vedo che voi non avete perso tempo.”
Tutti ridono, un po’ falsi. Io cerco di ricompormi ma sono ancora intontito e, soprattutto, sono dolorosamente consapevole di non essere all’altezza: sono sporco, male vestito, ignoro le regole della vita a palazzo, sono un disastro. Il fatto che la dama vestita di lilla non mi abbia ancora sbattuto fuori è già un atto di grazia. Poi mi rendo conto di stare pensando cazzate e mi sollevo in piedi con uno strattone di volontà. I sorrisi di circostanza si spengono.
“Ecco il vostro gentile invito” le getto il guanto che ho trovato sul sentiero, che finisce a terra “immagino abbiate qualcosa da dirmi. Su, parlate.”
“Non è questo il modo di rivolgersi ad una signora, sapete?”
Ha ragione, ci sono delle formule da rispettare e sto violando tutti i protocolli: la vergogna mi riempie le guance e abbasso gli occhi imbarazzato. Poi mi accorgo di quello che sta succedendo e mi sforzo di parlare.
“Chiedo scusa per aver violato regole che non conosco e che nessuno mi ha spiegato quando sono entrato invitato da voi alla vostra festa. Sono anche pronto a levare il disturbo, se pensate che la mia presenza sia inopportuna. Sono però sotto la convinzione che ci sia da qualche parte un messaggio per me.” Faccio una piccola riverenza, cercando il limite tra la contrizione e la strafottenza. “Nel qual caso, vorrei ascoltarlo.”
Le mie parole devono aver preso un po’ tutti di sorpresa, si leva un piccolo brusio subito messo a tacere dalla dama vestita di lilla.
“Molto bene, mio frettoloso ospite. Il messaggio è questo: arrendetevi. Siete lontano da casa, e il vostro percorso vi porterà sempre più addentro nel mio territorio. Siate mio amico, e vi garantirò un futuro glorioso. Opponetevi, e perirete.”
“Se la vostra magnanimità me lo concede, avrei due domande per voi.”
“Ma certo caro. Chiedete.”
“Come fate a sapere chi sono?”
“E l’altra?”
“Mi chiedete di divenire vostro amico. Ma, suvvia, facciamo un balzo di sincerità. La parola corretta sarebbe suddito, vero?”
“Che non si dica che non sono magnanima: risponderò alle vostre domande, e lo farò con un unico gesto.” Estrae da una delle molte volute del suo vestito un piccolo campanello che, scosso, emette un suono tintinnante. Si fa avanti un giovane e mi serve qualche secondo per riconoscerlo attraverso trucco, parrucca, vestiario e portamento. Sono io. Sono io, ma più giovane. Giovane come non sono mai stato, poco più che pubere. Io sono stato generato trentenne.
Il ragazzo arriva al fianco della dama vestita di lilla, che gli porge la mano guantata. Lui fa un piccolo inchino e gliela bacia con leggerezza, per poi prendere posto al suo fianco, un passo dietro a lei. Sembra minuscolo.
“Senza dubbio una risposta esaustiva. E dite, avete catturato molti altri esploratori prima del mio arrivo?”
“Usate questa parola, catturato, ma la realtà è un’altra. Osservate.” Si rivolge al giovane “Che tutti sentano la mia parola: esploratore 1201, io qui ti libero, cancello ufficialmente ogni vincolo che ti lega a me e ad ogni altro mio suddito. Vattene.” Le pupille del ragazzo si allargano e la faccia gli diventa paonazza “Ma mia signora, io…” ma lei lo interrompe “Non mi hai sentito? Va con questo tuo concittadino, tornatene nell’impero, abbandona il” ma qui si interrompe: il ragazzo è caduto in ginocchio, piangendo e implorando, e le afferra le gonne con entrambe le mani, scuotendo il capo. La dama vestita di lilla torna a rivolgersi a me “Vedete. Nessun vincolo. Lui” e lo indica con il ventaglio di metallo “ha deciso di restare, di sua volontà, come mio amico. E come tale è e sarà sempre il benvenuto” il ragazzo si illumina, lei lo ignora “altri, invece, hanno resistito. La lotta è stata dura, lo ammetto, siete una schiatta di avversari temibili, ma questo è il mio regno, e conosciamo i vostri spostamenti – temo che il tuo amato impero non sia così fantasioso nel tracciare i percorsi. Prima o poi, ti prenderemo. Ci costerà, ma succederà. In un modo o nell’altro, otterremo ciò che vogliamo.”
“E cosa sarebbe, esattamente, che volete?”
“Erano solo due, le domande.” Scuote il capo come una bambinetta che ha imparato la lezione. “Esploratore 1458, è il momento di decidere: amico o nemico?” Mi sorride e il suo sorriso mi travolge, le labbra carnose le si increspano con sensualità, il mio corpo reagisce, la desidero e nonostante tutto non posso fare a meno di pensare che sarebbe bellissimo spaccarle la faccia.
AZIONE CONSIGLIATA: distruzione.
NOTA: lo stupido mezzo non mi lascia cambiare percorso. Lo sapevo io, lo sapeva anche lei, ma ho comunque smontato mezza plancia di comando prima di dichiararmi sconfitto. Prevedo spedizioni movimentate.