EXPL 43: vento tremendo, pianura inospitale

Questo posto è una steppa dura e ventosa. I suoi abitanti parlano una lingua fratta e polifonica che non saprei trascrivere. Sono nomadi, e percorrono con leggerezza le sterminate pianure, cacciando.

Ho approcciato i locali durante le operazioni di smontaggio di un campo, e ho scoperto che non sono per nulla ospitali. Un ragazzetto dalla faccia piatta mi ha spiegato di malavoglia che la mattina dopo si sarebbero messi in marcia per raggiungere una festa o fiera o momento religioso – la traduzione non era facile, non sono sicuro di aver capito. Il giovane vestiva, come gli altri, di pelli e tessuti grezzi, con una piccola fascia multicolore al braccio sinistro come unica concessione estetica. Stavo per chiedergli spiegazioni sull’evento ma è stato bruscamente redarguito da una donna – forse la madre – che si è limitata a lanciarmi uno sguardo feroce per poi tornare a badare alla sue faccende.
Rimasto solo e senza possibilità di comunicare, non mi sono sentito benvenuto ma neanche in pericolo, e ho deciso di restare. La sera il campo era stato smontato quasi del tutto, con l’eccezione delle tre tende più grandi, dove l’intero gruppo – dopo un pasto frugale – si è ammassato per la notte. Notte che mi aspettavo fredda, ma che ha comunque colpito duro. Appena il sole è calato mi sono trovato circondato da un gelo primigeno, un leggero alito di vento mi ha sfiorato la pelle come cartavetro, e ho capito di essere ampiamente impreparato per una notte all’addiaccio. Mi sono accovacciato accanto ai resti del falò per strizzare un poco di calore dalle braci che si consumavano. Mi risultavano ora chiare, a posteriori, certe occhiate che mi hanno lanciato i locali appena prima di entrare nelle tende: mi davano per spacciato, certi che la mattina dopo avrebbero trovato il mio cadavere irrigidito. Non mi sfugge il meccanico distacco di questo popolo: nessuno mi aveva attaccato, ed anzi avevano anche condiviso parte del loro cibo – sebbene non le parti migliori, devo ammettere. Di contro, nessuno si era minimamente interessato delle mie condizioni, né aveva indagato per capire se avessi i mezzi per proteggermi, lasciandomi in una situazione potenzialmente letale.
Stavo seduto in terra, le ginocchia al petto per non disperdere calore, a guardare le ultime braci spegnersi. Avevo raccolto alcuni dei sassi usati per contenere il fuoco, ancora tiepidi, e me li ero messi in grembo. Nonostante l’ottima qualità dei miei vestiti il calore veniva lentamente risucchiato dal mio corpo, un millijoule alla volta, e ossevare così da vicino il processo di assideramento mi ha gettato in uno stato di profonda consapevolezza. Ogni unghia, ogni tendine, ogni muscolo era in allerta. Il mio corpo continuava a mandare messaggi, rapporti, concitate comunicazioni, ed una grande calma si era impadronita di me. Ero lontano da casa, minacciato, coinvolto in lenti cambiamenti di civiltà che mi chiamavano a fornire il granello di sabbia del mio contributo. L’idea dell’abbandono si è presentata, con dignità, senza cercare di infilarsi nella mia coscienza. Se abbandonerò, se il mio cuore deciderà per un’altra strada, non lo farà per cedimento o distrazione. Non ho compartecipato della mia stessa creazione, non ho scelto la strada dell’esploratore, non ho selezionato con meticolosità cosa sarebbe dovuto essere impiantato nel mio cervello e cosa no. Ma in fondo è così per tutti. Ho aperto gli occhi e ho visto il lupo.
La bestia, magrissima, si stava avvicinando di soppiatto all’accampamento, in cerca forse di riparo e di qualcosa da mangiare. Illuminato da un cielo lattiginoso, pareva in grande sofferenza, il freddo lo colpiva grandemente nonostante la folta pelliccia. Non mi aveva notato, all’inizio, grazie alla mia immobilità e al fatto che il mio odore era mescolato a quello di tanti altri. Ma ora che ci trovavamo a pochi metri l’uno dall’altro i nostri sguardi si erano incrociati ed in entrambi si poteva leggere la stessa domanda: che fare?
Se il lupo mi avesse attaccato avrei reagito e dato battaglia. Sarebbe stata dura e avrei potuto forse avere il sopravvento, magari usando una pietra o un coltello, ma a carissimo prezzo: mi vedevo sfigurato, le mani azzannate, le ferite rapidamente infette. Sempre che come mossa di apertura non fosse riuscito ad azzannarmi la gola, nel qual caso la lotta sarebbe stata breve e gorgogliata.
Se avesse deciso di scappare avrei valutato di inseguirlo: facendosi preda avrebbe fatto me predatore. Non sono avvezzo alle azioni selvagge, ma sono perfettamente in grado di scuoiare un animale. Inoltre la mattina i nativi mi avrebbero trovato vivo, coperto di una pelliccia ancora insanguinata, e chi lo sa, magari avrei migliorato il mio status sociale tra loro.
Ma c’era ovviamente la terza via, molto difficile. Un locale è un locale, non importa il numero di zampe: sfruttai il vuoto che si era fatto dentro di me e lo riempii di un unico fortissimo pensiero. Non volevo il suo male, non conveniva a nessuno lottare.
La mattina successiva i nomadi, al risveglio, ci hanno trovati acciambellati, uomo e lupo, ciascuno che proteggeva l’altro dal freddo, lui con la sua pelliccia, io con i miei abiti. Stupiti, hanno iniziato a parlottare nella loro strana lingua, e ad additarci. Ci siamo svegliati ed il lupo, tragicamente consapevole di essere in territorio nemico, ha gettato un ringhio ed è scappato via.

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