Ray Bradbury – L’estate incantata

Questo libro parla dello scorrere del tempo. Parla anche del ricordare, della vita e dell’essere umani, ma ci arriviamo. Più di tutto però voglio dire che è un libro che parla del tempo, che tutto sommato calza con me che lo devo leggere di fretta, dieci minuti al mattino dopo-colazione-prima-di-lavoro, mezz’ora in pausa pranzo, due minuti in coda per il bagno. Che quelli della biblioteca comunale mi han fatto lo scherzone: “il libro è arrivato più di tre settimane fa, ma non ti abbiamo avvisato. Ora hai tre giorni per leggerlo. Puppa.”

(Potevo chiedere un rinnovo, lo so, ma dove lo metti il senso dell’avventura?)

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È un libro a episodi. Non proprio racconti separati, che tutto è intrecciato, ma si sente forte che Bradbury viene da lì, dai racconti, e lì ci sta bene.

È un libro d’atmosfere, che ti prende e ti immerge in quel posto, in quell’estate, e leggendo certi episodi vien da pensare che Bradbury lo sapesse benissimo di essere un figo. Che quando ci parla del raccontare, dei vecchi che ricordano, del rivivere il passato come in una macchina del tempo a te vien da dire “ehi!”. Ma non ti arrabbi, che è tutto bellissimo.

È un libro ciclico. Molti episodi seguono lo stesso schema rassicurante: presentazione del personaggio eccezionale di turno, aumento di tensione e liricità, risoluzione tramite Discorsone. Il Discorsone c’era anche nel Popolo dell’autunno, ma solo una volta, quando il padre si apre ai suoi figli. Il Discorsone è il momento in cui Bradbury ci parla, direttamente, e ci dice delle cose che per lui sono importanti, rivelatrici. È la sua speciale filosofia, e in questo romanzo la mette in bocca al personaggio di turno, di continuo. Narrativamente è un passo falso – i Discorsoni sono tutti molto simili per lessico, messaggio, carattere. Appiattisce un po’ i personaggi, ecco. Le prime volte mi ha dato fastidio, ma poi l’ho perdonato. Non ci si può davvero arrabbiare con Ray Bradbury.

I temi son quelli lì: il passare del tempo, come cresciamo, come ci trasformiamo, come moriamo. Dice delle cose straordinariamente simili a quelle dei trafalmadoriani di Vonnegut, ma con un tono straordinariamente diverso, straordinariamente più dolce, sereno, felice.

E poi c’è l’altra roba, la famiglia. Una famiglia unita, plurigenerazionale, che riesce ad essere omogenea senza essere oppressiva. Una roba di quelle che non esistono più, insomma, relitti di quando il mondo era più semplice, le emozioni più vere, e gli uomini giravano nudi cantando le canzoni degli Abba.

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