Dead man talking

L’uomo nella cella è in ginocchio e immobile. La schiena dritta, il volto disteso, le mani molli appoggiate sulle cosce, gli occhi socchiusi. Indossa una divisa: arancione, sgraziata, come un sacco. I capelli sono rasati molto corti. Sull’avambraccio sinistro c’è il tatuaggio di un cane, molto grossolano, cattiva esecuzione. Le spalle dell’uomo sono larghe, le spalle di una persona in grande forma fisica. Quando respira la divisa si tende fino al limite assolutamente non elastico del tessuto. Le sue gambe non sono altrettanto muscolose, gambe di chi cammina poco.

L’uomo apre gli occhi. Davanti a lui le sbarre della cella sono incrostate e scrostate. Nello stretto corridoio dietro di esse una guardia sta in piedi, vagamente sull’attenti. Indossa una divisa grigia e nera, delle scarpe robuste e lucide, una cintura con fibbia metallica. La fibbia ritrae un qualche simbolo ufficiale. La guarda ha baffetti indecisi.

La cella è piccola e contiene: un sottile letto incernierato al muro; dei sanitari in alluminio; una televisione spenta. Poi, più su, una telecamera, ed ancora più su una luce fluorescente. Non ci sono finestre. Non si capisce che ora possa essere.

L’uomo in ginocchio incontra lo sguardo della guardia. La sua voce è quasi naturale.

– Come ti chiami?

– …

– E dai, il mio nome lo sai. Come ti chiami?

– …

– Capisco.

– …

– Non sono neanche gli ordini, vero? Non ti hanno detto: non parlargli. Magari ti hanno detto: è meglio se non gli parli.

– …

– Sei nuovo? Sembri nuovo.

– …

– Si capisce dalle scarpe. Voi camminate tanto. Noi non possiamo. Cioè, potremmo fare dei cerchi, avanti e indietro, ma si diventa scemi. Voi camminate proprio tanto. Dai, dimmi come ti chiami.

– …

– Immagino. Deve essere stato un tuo collega anziano a farti fare questo turno. Magari ha insistito. Fallo, che ti formi, ti avrà detto.

– …

– Quando ero piccolo eravamo sempre in viaggio. Mio padre era magrissimo e aveva le mani sempre fredde. Prendevamo il treno. Prendevamo sempre dei cazzo di treni per andare in posti lontanissimi a fare qualcosa. Non so che cosa, ancora adesso non lo so. Ero un bambino del cazzo e non capivo ma anche adesso, anche adesso se ci penso è un mistero. Tu lo sai perché mio padre mi portava in giro?

– …

– No, non lo sai. Neanche io. Però eravamo sempre in giro. D’inverno, specialmente. Aspettavamo il treno. Stavamo in piedi sulla banchina e aspettavamo e io tremavo dal freddo. Vedi questo orecchio, vedi qui la punta? Non si piega più. Rigida. Irrigidita dal gran freddo.

– …

– Il peggio erano gli altri treni, quelli che non si fermano, quelli che passano e si portano dietro una tempesta assassina. Lo capisci cosa vuol dire per un bambino piccolo?

– …

– Ma si che lo capisci. Mi spaventava a morte. Girava voce che ti potesse risucchiare, con la sua aria ghiacciata. Ero piccolo. Adesso non si direbbe. Adesso i genitori non li spaventano più, i bambini. Li proteggono.

– …

– Io comunque resistevo. Mio padre era magrissimo e aveva sempre le mani fredde e non aveva mai i guanti o la sciarpa e quando passavano i treni buttava in fuori la faccia e si prendeva tutto addosso. Anche quando nevicava, anche con la pioggia. Lo faceva apposta.

– …

– Che testa di cazzo che doveva essere.

– …

– Quando arrivavano certi treni merci grossi, cabinati, sapevo che ero in pericolo. Lo spostamento d’aria è fortissimo, ogni volta rischiavo di farmi portare via. Quando arrivavano mi attaccavo a mio padre. Mi attaccavo alla sua gamba e mi reggevo forte. Ma vedi, il problema erano le sue mani. Se mi attaccavo alla sua gamba lui piazzava una delle sue mani ghiacciate sulla mia testa, sulla mia faccia, e sentivo che mi portava via la vita. Era capace di portarmi via la vita, con quelle sue fredde mani del cazzo. Capisci che situazione?

– …

– Ma sì che capisci. Io dovevo aspettare fino all’ultimo, ultimissimo, quando il treno faceva già vibrare tutto e c’era il rumore assordante che ancora cresceva su quelle cazzo di banchine ghiacciate e finalmente era lì e mi attaccavo alla gamba di mio padre e aspettavo che passasse. E lui, lo stronzo, puntualmente piazzava una mano ghiacciata sulla mia testa e la lasciava lì. Non mi accarezzava, non mi stringeva, appoggiava la mano e mi succhiava un po’ di calore. Si faceva pagare in calore, io pagavo il sostegno che mi dava. Il fatto che potessi aggrapparmi a lui.

– …

– Era una lezione, credo. Nessuno ti dà niente per niente. Voleva dirmi questo. Voleva farmi imparare. Ma la lezione che è passata era diversa. Nessuno ti aiuta. Ecco cosa ho capito. Nessuno ti aiuta, neanche tuo padre. Soprattutto tuo padre.

– …

– Comunque non ho mai capito perché cazzo dovessimo prendere tutti quei treni.

– …

– Non mi hai detto il tuo nome.

– …

– Dimmi almeno quanto manca.

– …

– E forza, Cristo. Me lo merito. Almeno quello. Almeno oggi.

– …

– …

– Mancano due ore e trentacinque minuti.

Il carcerato strizza gli occhi, fa una smorfia. Sperava di più, o di meno.

– Va bene. Va bene. Non un minuto di ritardo. Il treno è puntuale.

(Racconto pubblicato prima su Typee)

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