Avalon, bassa padana

[Immagine di copertina presa dal gruppo “Il regno delle tenebre padane“,  che ben rappresenta lo spirito di questa vicenda.]

 

Stavo girando per la campagna padana – che è già una punizione sufficiente – e ho avuto problemi con la macchina. Ora, la mia macchina è uno scassone, lo so, è colpa mia, non massacratemi per questa cosa. E poi non è *così* uno scassone: è sfrisata, è ammaccata, c’è lo scotch sul paraurti e quando acceleri fa pof pof, ma il meccanico mi rassicura: vai tranquillo! E io vado, appunto, tranquillo. Sono tra Venzulate e Minertecchio e non c’è nessuno davanti e nessuno dietro, a perdita d’occhio. Badate che la perdita d’occhio è limitata, saranno tre, quattro metri, che la nebbia imperante bagna l’aria e i pensieri e insomma è tutto grigio, tutto intorno.

Ma non mi sto lamentando. C’è stato un momento che per fare l’alternativo, per darmi un contegno da adolescente annoiato (ci avevo già venticinque anni, veh, ma come da scritte in piccolo io vivo lento e arrivo tardi), c’è stato appunto questo momento dove rigettavo la nebbia con la sua magica poesia. Ma era una fase, appunto, e ora che sono invecchiato sono anche tornato bambino e irrazionale e molto, molto più felice. E quindi sto lì nel paesaggio grigio con la mia macchina grigia e dentro di me sono tutto fuorché grigio, che mi godo il di fuori, mi immagino le cose che non vedo, il silenzio come tanti cuscini e la strada monca lì davanti. È una zona che conosco a menadito, non c’è in giro nessuno, è giorno, ci sono campi nudi a destra e a sinistra. Va tutto bene.

Accelero. Accelero e mi aspetto il rassicurante: pof pof. E invece sento: pof fiiiiii. Vabbè, sticazzi, ignoro il problema, che tanto cosa vuoi che sia. Avete letto l’incipit, sapete già come va a finire: ho avuto problemi con la macchina. Saltiamo quindi questa parte di orribili rumori sempre più scoraggianti, perdite di potenza, vibrazioni, tutte cose che mi ostino a minimizzare, poi a ignorare, poi a negare con violenza, contro tutto e contro tutti. Ecco. Saltiamo quindi questa parte francamente imbarazzante e andiamo avanti veloci di una mezz’oretta: io, fermo, involontariamente fermo, la macchina che rantola, che ci vuoi fare. Ma non mi faccio prendere dallo sconforto, la nebbia magica e/o poetica non sarà certo un problema. Avanti ancora qualche minuto: ho messo le quattro frecce e il triangolo, che a scuola guida ho passato teoria in un soffio e a pratica quasi mi bocciavano. Poi, con la sicumera piccolo borghese di chi ha due polizze sulla pensione, prendo il telefono e faccio per chiamare aiuto. Qui, ammetto, devo chiedere scusa, che l’espediente drammatico è un po’ trito, ma tant’è, è successo quel che è successo: il cellulare era scarico. Non ho modo di contattare nessuno, da lì, dal cuore della nebbia. Il paesaggio d’improvviso sembra un po’ più ostile.

Ma non mi faccio scoraggiare. Eh no, bello mio, alégher, che peraltro non è così male il contrattempo. Perché ancora, illuso, lo consideravo quello: un contrattempo, una cosa da niente, non un treno che sferraglia a tutta potenza su un binario morto. Non è così male, dicevo, che è una scusa perfetta e inattaccabile per non fare quello che dovevo fare, quello che stavo andando a fare, cioè andare a casa di amici che non sono poi così amici a fare auguri che non sono poi così auguri, mentre l’unica cosa che vorrei fare davvero in questa domenica novembrina è stare sottocoperta a bermi una tazza di polenta, insomma fare l’orso nella tana, ma visto che non si può più, visto che ho avuto la pessima idea di abbandonarla, la tana, tanto vale fare la mia seconda cosa preferita. Ovvero: esco dalla macchina, chiudo e mi incammino. Qualcosa succederà.

L’autostop non era una possibilità. A parte che non passava nessuno, ma poi sarebbe comunque passato un lombardo, razza nobile e antica ma non certo amichevole. Vedi alla voce: malmostosi. Se fai l’autostop rischi che ti mettano sotto per dispetto. E poi, dai, quanto vuoi che sia? Il paese più vicino deve essere per forza vicino, credo. Il piacere di avere una scusa vera per saltare lo sgradito evento sociale mi dava benzina alle gambe e già mi immaginavo la scaletta, trovo un bar, mi bevo un caffé corretto Cinar, spiego che son rimasto a piedi, chiedo di usare il telefono e avviso: oh, guarda, mi dispiace veramente tanto, sapessi cosa mi è successo, son qui che aspetto l’ACI, guarda davvero un peccato, sarà per la prossima volta, no non stare a richiamarmi, vedrai che andrà tutto bene, dai, scappo, ciao, ciao. Perfetto.

Mentre cammino questo copione si affina, aggiungo dettagli, la tenda di perline all’ingresso del bar, il vecchio con i baffi che gioca al videopoker, la ciotola con le olive un po’ stantie. Un quadro neorealista, iperrealista, romantico. E intanto cammina cammina, il nostro eroe si infreddolisce, l’umido penetra ben bene, i capelli mi si arricciano, l’orlo dei pantaloni mi si bagna. Ma io ignoro la cosa e penso: magari al posto del caffé chiedo se mi fanno un bombardino, come in baita. Magari mangio un panino caldo, alla piastra. Magari gioco a scopa con i vecchi, intanto che aspetto il carro attrezzi. E cammina cammina, ho sempre più freddo, ma va tutto bene, ancora, perché è un contrattempo, una roba da niente, non c’è da scoraggiarsi, anche se comincio ad avere la condensa nella barba, anche se la luce sta cambiando, anche se una gazza mi sorvola, bianca e nera come un film sovietico, e sorvolandomi gracchia, caa-caa. Va tutto bene.

È a questo punto che trovo l’accetta. Per farvi capire lo scenario, stavo camminando su una strada provinciale a una corsia e mezza, di quelle che speri di non incontrare nessuno nell’altro senso di marcia. Da entrambi i lati della carreggiata c’erano i fossi, belli profondi, quasi asciutti in questa stagione, le pareti coperte da un’erbetta asfittica che poi si interrompe di colpo nella transizione violenta verso i campi addormentati. Il cielo era una coperta grigina, in lenta discolorazione. Tra poco il sole avrebbe bucato il muro delle nuvole e tutto sarebbe diventato giallo per qualche minuto, poi scuro. Tra poco. Ora, davanti a me, nella nebbia, un’accetta, piantata di potenza dentro un ramo di pioppo abbandonato lì su una strada di servizio, uno di quei piccoli ponti che servono per far entrare i trattori nei campi. Nebbia a destra, nebbia a sinistra, davanti e dietro, nessuno in vista, il grande silenzio, e l’accetta che mi occhieggia.

Non ho avuto un attimo di esitazione, che in questi casi non bisogna dare tempo ai pensieri di formarsi. Visto da fuori tutto si è svolto con estrema fluidità: camminavo a lato strada e senza perdere un colpo ho deviato di poco la traiettoria, due passi a destra, afferro l’accetta con decisione, dalla punta del manico, do uno strattone, la libero, torno sulla strada, mi allontano. Visto da fuori, so quello che sto facendo. Visto da dentro, so quello che ho fatto: ho rubato un’accetta. Resta da capire il perché. Nel dubbio aumento il passo.

La prima questione che mi si pone – con un’urgenza violenta che in quel momento aveva anche la sua logica – è una questione pratica: come trasporti un’accetta mentre cammini? Non è una banalità, e ci sono delle conseguenze. Ad esempio all’inizio l’ho tenuta davanti a me, orizzontale, una mano sul fondo del manico e una mano appena sotto la testa. Chiamiamo questa posizione “Il teppista”, perché è come nell’immagine stereotipata del punk che impugna una mazza da baseball ed è pronto a spaccare tutto. Discretamente ergonomica, tiene però i bicipiti sotto tensione, e dopo poco mi sono stancato. Sono passato alla seconda presa, “Il maniaco”: accetta verticale, bassa, lungo il fianco, tenuta con una mano per la fine del manico, la lama sospesa a una spanna da terra. Per l’uomo pratico che però non rinuncia alla teatralità di sollevare l’arma sopra di sé in un ampio gesto prima di colpire. Son passato quindi al “Boscaiolo Felice”, accetta appoggiata ad una spalla, lama dietro la schiena e mano gettata sbarazzina sopra il manico. Una posizione allegra, che comunica spensieratezza assieme a grande competenza. Il Boscaiolo Felice è durato parecchio, in effetti è un ottimo candidato, ma alla fine ha vinto lui, “il Cavaliere”: accetta bassa lungo il fianco, simile al Maniaco, ma tenuta per la testa, non per il manico. Come una spada. Oltre ad essere la posizione più comoda mi dava come una sensazione di forza, di stabilità. Sono il Cavaliere, non voglio guai, ma occhio che se mi dai fastidio sono cazzi.

Come dicevo, ci sono delle conseguenze. La prima è stata nello scenario mentale, quel viaggione che facevo nella mia testa pensando a cosa avrei fatto una volta arrivato al baretto. Eccomi lì, seduto al tavolo con gli anziani, un bicchiere di bianco, due fette di cacciatorino, la Luisa che ci porta una ciotola di patatine, e poi entra lui, il cattivo. Si staglia sulla soglia: un lampo improvviso, fuori, delinea la sua sagoma nera. Guarda tutti, nel bar c’è tensione, io non so nulla delle loro vicende ma so che toccherà a me risolverle, con ampio uso di violenza e della mia nuova, fidatissima accetta. Segue un montaggio hollywoodiano e serratissimo di calci e acrobazie e accettate bisettrici di tavoli, fino a quando il nemico è sconfitto ma risparmiato con magnanimità, il paese finalmente liberato, la Luisa mi guarda trasognata, io che mi allontano nel tramonto, sotto la luce lampeggiante del carro attrezzi finalmente arrivato.

È a quel punto che realizzo di avere davvero freddo. L’umido mi ha sfogliato come una cipolla, una dopo l’altra ha abbattuto tutte le mie difese e adesso tremo. Non sono vestito abbastanza pesante, non era prevista questa scampagnata. Anche il Cavaliere ne risente, la presa sull’accetta si fa meno sicura, il passo meno spavaldo. Il contrattempo sta diventando una faccenda seria. L’attacco del nemico, subdolo, sta rivelando i suoi nefasti effetti. Per astrarmi dall’orribile situazione e non affrontare le mie gravi responsabilità mi racconto una storia fatta di facili parallelismi: le nebbie che mi circondano non sono la banale esalazione dei campi, pregni delle piogge di questi giorni. No, figuriamoci! Sono invece brume mistiche che nascondono e proteggono l’isola di Avalon, verso cui sto andando e/o tornando, non ho ancora deciso. E l’accetta non è uno strumento di qualche povero agricolo che io ho malamente derubato. No, come Excalibur, è un’arma magica che stava lì apposta, in attesa che la persona giusta la estraesse. E questo fa di me una specie di Artù, ovviamente, o se non proprio Artù comunque un personaggio di quelli lì. Un vero cavaliere. E quindi, va da sé, questa è la mia prova, è il momento in cui devo dimostrare il mio valore e finalmente vedere riconosciuto il mio rango. Anzi, guarda, se osservi bene il manico sicuramente troverai una scritta in antico alfabeto sassone che comprova la leggenda. Guardo il manico. Made in china.

Ed è in questo momento, nell’ora più buia, che il sole buca e ingiallisce il paesaggio. Se non avete familiarità con questo fenomeno non temete, provo ora a descriverlo nel dettaglio: diventa tutto giallo. Fine. È una roba breve che ha anche la sua bellezza, e preannuncia l’imminente imbrunire. La luce cambia di colpo, dappertutto, appunto tutto si ingiallisce, ed io per un accidente di diffrazione noto solo ora una macchia scura, grossa, sulla sinistra: una cascina, senza dubbio. Ecco che la strada ha una biforcazione, ecco che devio, ecco la rottura che mi porta a nuove avventure. In altri termini: che si fotta il bar della Luisa, ho freddo, vado.

La cascina ha la più tradizionale delle architetture: un grande quadrato di edifici a proteggere un cortile interno, con un cancello di ferro battuto che chiude l’accesso dalla strada. Però il cancello è aperto e il nostro eroe ha troppo freddo per fermarsi davanti a ostacoli banali come “violazione di proprietà privata” o “cane da guardia”. Ma va tutto bene, guadagno il centro del cortile e mi guardo rapidamente attorno nella speranza di trovare volti amici. Dei quattro lati della cascina tre sono in palese stato di decadenza e il quarto sembra disabitato. O meglio, sembra abitato, ma è tutto spento. Magari i padroni di casa sono al lavoro, in città, e torneranno per cena. Magari dormono di già. Io però sto congelando, quindi devo prendere un’iniziativa. Mi avvicino alla porta dell’unica zona non diroccata e cerco un campanello. Voglio annunciarmi, non ho niente da nascondere, figuriamoci. Ma il campanello non c’è, e allora busso, una volta, due volte, la terza proprio forte, spelandomi le nocche, e aggiungo “C’è qualcuno?” e poi, con un sapore un po’ retro, “Ohi, di casa!”

E in effetti ottengo una risposta, ma non quella che mi aspettavo. Sento rumori concitati, passi pesanti, qualcosa che viene trascinato, un crash ligneo, un’imprecazione. Dato che sono sempre imbevuto di buone idee faccio la cosa migliore da fare in questi casi: provo a entrare, magari è aperto. E in effetti è aperto. Entro. Entro, che forse qualcuno si è fatto male nel venirmi ad aprire. Entro, e mi trovo in una cucina rustica, un grande camino, i paioli di rame appesi, la madia della nonna e il tavolo del bisnonno. Al centro della stanza, nella penombra, due tizi raccolgono malamente i contenuti di un baule di legno che si è appena scassato, lì sul pavimento: un televisore, un computer portatile, scatolette dai bordi dorati. Io li guardo, perplesso. Loro mi guardano, terrorizzati: sono bianco come un cencio, stravolto dal freddo, grondo umidità e ho capelli scarmigliati. E poi, sì, imbraccio un’accetta. Uno dei due spalanca gli occhi e poi si fionda verso una porta di servizio, centra lo spigolo con un tonfo epocale e cade a terra, rincoglionito dall’urto. L’altro alza le mani e non riesce a proferire parola, muove la bocca e non esce un suono, gli occhi inchiodati sulla mia accetta. Due ladri, forse disperati, certamente incompetenti. Colti con le mani nel sacco, hanno consegnato il loro destino nelle mie mani.

Ecco quindi la mia prova, ecco quindi la mia avventura. Ecco, subito, il peso della corona. Perché il re prima di tutto è giudice. Hai voluto sventare un reato? Farti paladino della giustizia? Censore dei costumi? Benissimo. E adesso che fai? Perché, parliamoci chiaro, se adesso telefoni alla polizia, o aspetti che tornino i padroni di casa, quelli veri (e se non tornano?), la cosa si fa lunga. Lunghissima. Altro che contrattempo. Denunce, processi, e comunque lei che ci faceva con quell’accetta? E poi tra un momento questi si riprendono, capiscono che sono un povero pirla, mi assalgono. Guardo l’accetta tra le mie mani. Made in china.

Oppure potrei scappare. Scappare o farli scappare, è uguale. Disinnescare il problema tramite la codardia, tutti si allontanano e passa la paura. La faccenda si risolve in un aneddoto curioso da raccontare agli amici. I ladri sono sicuramente più spaventati di me, magari questo incontro fortuito basterà loro per mettere la testa a posto, per tornare sulla retta via, per imparare la lezione. Chiamare la polizia è la soluzione di re Artù, farli fuggire è la soluzione di Lancillotto: messo alle strette, davanti alla prova, la natura umana vince sull’onore – lui, per amore di Ginevra, io per paura e/o pigrizia, ma grossomodo siamo lì. In fondo Lancillotto non è un brutto personaggio, l’eroe romantico, a ben guardare è il più convincente della combriccola.

Ma mi conosco. Guardo l’accetta tra le mie mani. Made in china. Mi conosco. So che di tutto il ciclo arturiano, se proprio devo prendere un ruolo, se ci sono costretto dagli eventi, se il caso mi inchioda, non sarò né Lancillotto né re Artù. Non scherziamo. Lancillotto è roba da signorine, un eroe da romanticismo ipertrofico che non sa tenere allacciate le brache dell’armatura e va a letto con la donna del re. Del re, oh, mica cotiche. E Artù è noioso. Sempre perfetto, sempre forte, l’ideale del monarca giusto, in tempo di pace come in tempo di guerra. Ma nella vita ci vuole rumore. Se proprio devo agire, indosserò altri panni. Un altro personaggio, un altro archetipo per risolvere l’intera faccenda. Alzo l’accetta sopra la testa, getto un grido, carico. Sono Mordred, oggi porto terrore.

 

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