Il giorno prima della festa

Simalla guarda dalla finestra lo spettacolo della città che non vuole addormentarsi. Il buio ha messo in giro una fiumana incontenibile di persone felici e sudate che si accaparrano dolci, occhieggiano saltimbanchi, schivano o si uniscono alle severe processioni di monaci che a ogni ora fendono le strade. La città è viva come non succedeva da tempo. Domani, alla festa di San Fracasso, le celebrazioni giungeranno al culmine. Domani Simalla sarà stata sacrificata.

La donna lascia la finestra e torna alla sua stanza. È per metà una prigione e per metà una reggia: essere offerta in sacrificio è un onore altissimo, ma ad ogni buon conto le finestre sono sbarrate e l’unica porta è chiusa da fuori. Il mobilio è ricchissimo e disparato, accumulato in anni di donazioni da parte delle pie famiglie della città, che fanno a gara a chi dimostra maggiore devozione al santo patrono. La chiesa accetta le donazioni con somma umiltà, e Simalla passerà la sua ultima notte tra poltrone foderate di seta finissima e tavoli zoomorfi con zampe di leone, tra piatti d’oro così scintillanti da accecarla mentre mangia e carillon così struggenti che deve fermare le loro canzoni prima di cedere all’impulso di fracassarli.

E viene anche trattata come una regina. Le hanno portato i cibi più ricercati, frutto anch’essi delle generose donazioni delle famiglie locali – alcune alleate alla sua, altre nemiche, tutte volenterose di compartecipare. Se domani lei si comporterà bene sarà certo motivo di vanto: “avete visto” dirà il grasso Manilo de Manili “tutto grazie alle mie olive ripiene, di cui so per certo che si è pasciuta” ma subito qualcuno dei Vanucci ribatterà che “Manilo non sa quello che dice, sono state di certo le mie pernici, di cui Simalla va ghiotta, lo sanno tutti.” E così via. È sempre bene vantarsi quando nessuno ti può smentire.

E poi c’è la questione del sesso. Sempre, quando il sacrificio è stato maschio, ogni famiglia ha fatto a gara – leggasi: ha pagato profumatamente tutta la gerarchia ecclesiastica, dal grasso abate dai denti d’argento fino all’ultimo dei fraticelli di guardia – per far entrare per qualche minuto una delle proprie figlie nubili nella stanza del sacrificando. È fatto noto che un bambino nato da quell’unione porti lustro e sia destinato a grandi cose. Così va il mondo. Ma Simalla è femmina, e quindi meno interessante. Le famiglie hanno meno ricavo, si smuovono meno capitali. Non è più un affare di stato, diventa una questione personale.

È entrato un uomo e si è spogliato. L’ha fatto senza esitazione, come chi si deve denudare per lavarsi, ha piegato i vestiti e li ha adagiati a terra. Nudo, ha mosso un passo verso Simalla, che è saltata indietro spaventata. Lui non ha detto parola e si è fermato. Si è inginocchiato. Ha chiuso gli occhi ed è rimasto così, per minuti interi, a respirare piano, con calma. Simalla si è rilassata e l’ha osservato. Non è bello, ma ha un volto onesto, la fronte alta di chi pensa, le rughe alla bocca di chi sorride. Il corpo è asciutto e forte, l’uomo deve fare un mestiere pesante ma non assassino. Non è piegato dal lavoro. Non ha le mani storte, le ossa rotte guarite male, le cicatrici. È ben fatto. Potrebbe essere l’ultimo uomo che mai toccherò. Meno di dieci minuti dopo Simalla e lo sconosciuto fanno l’amore, e non è niente di straordinario, un uomo e una donna mescolati che sudano e lottano per terminare e prolungare e forse è questa normalità in un momento così eccezionale a rendere straordinario l’incontro.

Lo straniero, dopo, si alza e non dice niente, e senza dire niente si riveste, coi gesti puliti e misurati di un attore che sente addosso gli occhi del pubblico e per quegli stessi occhi si muove, indossa la camicia, stringe i lacci delle scarpe. Vorrebbe andarsene in silenzio, come è arrivato, senza dire una parola, ma Simalla lo ferma, lo sfiora, impone lo sguardo, e nello sguardo dell’uomo trova, sorpresa, una grande tristezza. Cade la maschera dell’attore e Simalla intuisce una qualche enormità, un qualche dolore, qui, feroce, e lei non capisce il motivo, lei non conosce il volto, lei non sa.

Lei non sa. Non sa e non può sapere, sapere in quel modo quotidiano e sommatorio, fatto di intimo, di complice, di mio. Intuisce. Non è difficile intuire, ha già visto l’amore, ha già provato l’amore, e poi qui, questo, è quasi troppo facile, quasi troppo vivo. Chi è quest’uomo che la ama?

Ma lui non vuole rispondere. Scuote la testa, scaccia la mano, si arrabbia, finge di arrabbiarsi, Simalla vede attraverso la recita e vorrebbe aggrapparsi e fermarlo e baciarlo ancora ma si trova inchiodata al ruolo amaro di chi ha ferito, non sa come e non sa perché, sente che al massimo dovrebbe consolarlo, al massimo lei dovrebbe essere la persona forte, quella che abbraccia, parla piano, dice che andrà tutto bene.

Ma è tutto troppo per lei. Lui finisce di vestirsi, lei non lo ferma, lui se ne va, la lascia sola. Dalla strada sale il vociare della gente, in festa.

[Racconto pubblicato (quasi uguale) anche su Typee]

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