Mario l’uccisore

“Ma siccome sono buono e voglio giocare in maniera equa, ti do un minuto di vantaggio: un minuto di fuga a perdifiato, che passerai nella falsa speranza di poterti salvare. Poi ti verrò a cercare, ti troverò, e ti ammazzerò.
Ah, dimenticavo, sono già passati dieci secondi…”

Lorenzo spariva nei corridoi tra la merce e Mario sorrideva, già immaginando. Si udivano i passi di Lorenzo allontanarsi e Mario sogghignava, pensando che la sua vittima non aveva via di scampo: lui conosceva a memoria il proprio magazzino. Mario era un sicuro carnefice, Lorenzo il suo puledro da macellare; pensava, appunto, Mario.

E non si risparmiò di annunciare l’inizio della caccia: bisogna godersela a pieno, pensava Mario. Con voce squillante gridava al suo ospite che, dovunque si fosse rintanato, se lo sarebbe mangiato in serata. Metaforicamente, chiaro, certe cose non le faceva più da molto ormai, Mario.

Mario mosse un passo e fece scattare l’otturatore della pistola: così, gli piaceva il suono, tanto per ricordare alla preda che non si giocava ad armi pari.

Mario già immaginava il poveretto, in preda al terrore, rintanato in una cassa, piangente, supplicante ad un cuore di pietra.

Mario fece un altro passo e si infilò tra la mercanzia: vicoli di ceste, motori, marmitte, casse di banane, uccelli impagliati, sacchi di sabbia, coperte. Poteva, in effetti, essere ovunque. Mario sperò solo che non ci volesse poi davvero tanto a trovarlo: che palle, diventava noioso.

Mario fece un altro passo e sperò anche che il tutto non si risolvesse in uno dei soliti tentativi di lotta disperata: non voleva rovinare il vestito, era così inelegante.

Mario fece un altro passo e Lorenzo gli sfracellò la testa con un tubo di ferro. Un comunissimo tubo di ferro, zincato, del peso approssimativo di quattro chili, che Lorenzo usò per colpire con violenza la nuca di Mario. L’osso occipitale cedette, andando a frantumarsi nel lobo omonimo. L’inerzia del colpo fu tale che Mario cadde sul pavimento con la faccia, già privo di sorrisi. Lorenzo ad ogni buon conto calò ancora il tubo sulla sagoma distesa: un ginocchio frantumato, la spina dorsale rotta qua e là. Qualche colpo liberatorio, per scaricare lo stress.

Poi si concedette il lusso di respirare, fece cadere il tubo – clang clang – guardò Mario e gli diede del coglione.

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