Lettere da Malu Malu #9: fermi ad un crocicchio

GIORNO 13

Luminosissimo maestro,

oggi ho dominato, e sono salito nuovamente sull’isola, e per un cambio di passo molto beneaccolto posso annunciare che tutto è andato molto bene, senza inciampi o brutte sorprese. Vi annuncio da subito che i fatti sono molti, e straordinari, epperò già so che non riuscirò a produrre l’intero racconto prima che la stanchezza venga a chiedere il suo tributo. Confido nella vostra pazienza: ciò che non riuscirò a scrivere in questa mia sarà riportato con maggiore freschezza nella prossima. So che comprenderete la mia scelta: gli eventi, in particolar modo se prodigiosi, richiedono un’esposizione ordinata.

Ci eravamo lasciati due giorni fa con una lettera che vi scrissi dopo una notte passata vegliando gli esploratori avvelenati. Data la grande stanchezza che mi appesantiva ho tralasciato di darvi un dettaglio, forse di nessuna importanza, ma che ora per completezza aggiungo. Vi ho scritto come tre dei quattro esploratori mostrassero una forma molto forte di avvelenamento. I loro nomi, per evitarvi di scartabellare, li riporto ancora qui: Curcumello, Ragno, e Palavietto. Il quarto, che si dimostrò resistente al malanno, ha nome Giusmo. Ebbene, durante le grandi febbri indotte dalla venefica sostanza i tre mostrarono una forma di delirio peculiare. Se fosse stato uno solo in quelle condizioni nulla avrebbe fatto intendere che il suo blaterare fosse di alcuna importanza. A udirle parevano parole senza senso, vedete, incomprensibili al mio orecchio, suoni di gola e schiocchi di lingua più adatti a richiamare gli animali da soma che a comunicare tra creature d’intelletto.

Il dettaglio che però attirò la mia attenzione fu una peculiarità di tale delirio: tutti e tre producevano gli stessi suoni. Non come un coro, che non vi facciate l’idea che recitassero un medesimo copione. Epperò vi era una grande somiglianza tra i deliri dell’uno e dell’altro e dell’altro ancora, tanto che quando tutti si producevano in tali suoni si poteva chiudere gli occhi e immaginare di essere in una città straniera, fermi ad un crocicchio, a spiare il dialogo degli abitanti del posto.

Come vi ho scritto, forse è un dettaglio di poca importanza. È pur vero che con le luci dell’alba i tre hanno finalmente mostrato segni di remissione, la febbre si è abbassata e i sintomi dell’avvelenamento sono spariti. È in quell’occasione che vi ho scritto la mia ultima lettera, per poi concedermi di sonnecchiare un paio d’ore. Quando per pranzo mi sono tirato in piedi ho scoperto con sorpresa come i tre fossero non solo già svegli, ma addirittura in piedi, e all’apparenza del tutto ripresi dalla brutta avventura. Credo, in tutta sincerità, che non volessero mostrarsi deboli con i loro compagni, perché al mio occhio era chiaro come i loro sorrisi fossero falsi, e tirati, e come una grande ombra aleggiasse ancora su di loro. Ho più volte caldeggiato che si prendessero almeno un giorno di riposo, che in fondo le attività in questa fase della missione non sono frenetiche, ma ogni mio tentativo è stato vano. Peggio, Moliabre mi ha ricordato in malo modo che solo lui e il capitano sono responsabili del benessere della ciurma, dicendomi in buona sostanza di non impicciarmi. A me i tre continuano a sembrare rallentati e ombrosi, ma è pur vero che se staranno lontani dalle attività più stancanti avranno certamente modo di guarire del tutto.

Come vi anticipavo in apertura, sono ormai passati due giorni da questi eventi, e oggi è stata un’altra di quelle giornate straordinarie e ricche di progressi che meritano di essere riportate. La sera stessa dell’avvelenamento, e poi per tutta la giornata di ieri, ci sono stati grande fermento e discussione nel campo, e a bordo della caravella, e l’argomento era sempre il medesimo: che fare? L’isola sembra affastellare ostacoli, e ora che finalmente abbiamo superato la sua scogliera essa ci pone davanti la foresta, impenetrabile e avvelenata. Come procedere?

La discussione è stata viva, anche perché la ciurma ha in fondo poco altro di cui parlare, e mi pare inopportuno riportarvi qui le proposte tanto fantasiose quanto miopi che si sono accumulate, la più bislacca delle quali prevedeva di issare a forza di braccia la bombarda che difende il campo, di modo da aprirci la strada a colpi di cannone.

Ma divago, e mi pare di offendervi riportando tali corbellerie. Ad ogni buon conto, il grosso dei discorsi si incentrava sull’uso del fuoco, ovvero se fosse possibile incendiare una parte della foresta in maniera da sfondare la barriera e in una singola mossa sbarazzarci e delle liane e del resto della vegetazione. Tra i detrattori di questa linea v’era chi sosteneva che la foresta fosse troppo vergine e umida per tenere il fuoco, e che avremmo quindi solo sprecato esca e buon olio. E c’era anche chi, in totale opposizione coi primi, sosteneva che se l’incendio avesse attecchito non avremmo avuto modo di fermarlo, rischiando quindi di dare fuoco all’intera isola, e quindi arrivava alla medesima conclusione, ovvero sconsigliava di procedere in tal senso.

La discussione si è tirata per le lunghe, tra queste e altre mozioni che non trascrivo, finché sul calar della sera abbiamo scorto la piccola scialuppa staccarsi dalla Timorazza recando a bordo la figura inconfondibile di Maestro Filippo, accompagnato dal capitano Tirso ai remi. Subito nell’accampamento si è diffusa una certa eccitazione, gli uomini si sono divisi in capannelli, di modo che l’arrivo del mago è stato accolto con grande anticipazione. Egli mantiene, anche a causa del suo riserbo, la straordinaria capacità di controllare ciò che accade attorno a sé, e impone senza fatica il proprio comando sulla ciurma.

Maestro Filippo è sbarcato e senza senza perdere tempo si è diretto verso di me, con il capitano che lo seguiva a passo lento. In quel frangente ho notato che Moliabre, il secondo, si era fatto cura di avvicinarsi, di modo da poter partecipare alla discussione senza peraltro esserne stato invitato. Maestro Filippo, con i suoi modi sbrigativi, mi ha informato che il giorno dopo, ovvero stamattina, avrei dovuto scalare la scogliera, solo, e dare fuoco alla foresta, con l’intento dichiarato di accedere alle zone più interne dell’isola, laddove la vegetazione è meno fitta.

Tra la ciurma si è subito diffuso un mormorio concitato, e mentre Maestro Filippo già si apprestava a tornare verso la Timorazza Moliabre ha trovato il coraggio per voce ai dubbi di molti. “E come potrete”, ha chiesto con tono cattivo, “impedire che il fuoco si mangi l’intera Malu Malu?”

Ricordo che mi aspettavo una sfuriata, immaginavo che Maestro Filippo potesse dare in escandescenza o addirittura reprimere con violenza quella che a tutti gli effetti era un’insubordinazione. Ma fu un pensiero sciocco, il mio. Maestro Filippo è uno con l’Arte, e il primo precetto scorre purissimo nelle sue vene. Egli si è limitato a voltarsi appena verso Moliabre e a mostrargli un sorriso enigmatico. Senza bisogno di parole il Maestro aveva risposto: il modo c’era, e che gli altri si limitassero a osservare. Poi si è voltato e in pochi minuti già riprendeva il mare.

Come immaginerete tra la ciurma si è subito diffusa l’eccitazione, e io ancora una volta mi sono ritrovato oggetto di attenzioni e domande. Rispetto alla prima volta, a quando cioè fu annunciato che avrei scalato la scogliera, ieri i discorsi furono molto più espliciti, come se fosse ormai caduta l’aura di mistero che circondava il mio operato. Senza molte remore un po’ tutti mi chiesero come avevo intenzione di procedere, se avrei usato uno dei trucchi di noi maghi – riporto le esatte parole, per rendervi l’impressione del momento – e come avrei potuto impedire alle fiamme di divampare in maniera incontrollata. A queste domande, e ad altre che non vi riporto per brevità, non sapevo davvero come rispondere. Lo potete immaginare anche voi, maestro Filippo è vittima del suo stesso carattere solitario, e le sue parole erano giunte a me esattamente come agli altri, ovvero come un involto inatteso inviato da un mittente sconosciuto. Cosa conterrà il pacchetto? Sarà un regalo o un auspicio di sventura?

Detta brevemente, brancolavo nel buio. La ciurma se ne accorse, ma questo non fece che infiammare i loro animi, poiché se nemmeno io sapevo cosa sarebbe successo allora ogni possibilità era sul campo, anche le più fantasiose. Subito si diffuse la voce che mi sarei trasformato in una fenice, e le scintille infuocate delle mie ali avrebbero appiccato innumerevoli incendi. Ci fu anche chi propose, per prudenza, di spostare le tende dell’accampamento un po’ più vicine al bagnasciuga, in un luogo protetto, di modo da ripararsi dalla pioggia di fuoco che avrei scatenato. Come vedete la mente degli uomini è il più veloce dei destrieri, e ci misi molto a convincerli che non mi sarei trasformato in alcunché, e comunque credo di non aver del tutto quietato gli animi.

La sera mi recai sulla Timorazza per parlare con maestro Filippo, poiché volevo ricevere da lui qualche indicazione, o anticipazione, su cosa mi avrebbe aspettato il giorno dopo. Ma arrivato alla porta della sua cuccetta esitai e non riuscii a forzarmi a bussare. Se non aveva ritenuto di avvisarmi non potevo certo costringerlo, così pensai, e non era opportuno per me dubitare della sua saggezza. In verità, confesso, non affrontavo quel confronto con piacere, e da ultimo non avevo davvero desiderio di parlargli. Quanto mi sento stupido a scrivervi queste cose, luminosissimo maestro, e quanto mi sento lontano dagli ideali di forza e decisione che voi mi avete insegnato e che so dovrei incarnare.

Attesi quindi alcuni lunghi minuti davanti alla porta di maestro Filippo e poi, sconfitto dai miei stessi dubbi, me ne tornai alla chetichella all’accampamento. A chi mi chiese qualcosa dissi che ero andato a recuperare non so quale quisquilia dalla mia cabina. Quella notte ebbi un sonno inquieto, certamente a causa della prospettiva di cosa mi attendeva il giorno seguente. La mia prima spedizione sull’isola si era rivelata proficua ma, ricorderete, anche molto dolorosa. Per pudore ho preferito non allungare questo già troppo prolisso racconto con lamentazioni circa la mia salute fisica, ma vi basti sapere che le mie braccia erano ancora coperte di cicatrici fresche, e ancora faticavo a dormire dal lato della gamba destra, grandemente offesa dalla caduta, tanto che uno dei dubbi che più mi assillavano era relativo all’ascesa. Sarei riuscito, sebbene aiutato dalla via ferrata, a salire sulla scogliera?

Non riuscendo a prendere sonno mi alzai per prendere aria e cercare un po’ di pace guardando il mare. È uno spettacolo notevole, le onde notturne racchiudono un tenue lucore che svanisce a contatto con le rocce della costa, dando così l’impressione di dune mobili e irrequiete che si rincorrono senza posa. Durante la mia uscita – mancava ormai poco all’alba – incontrai i tre marinai avvelenati. Anch’essi non riuscivano a prendere sonno, e cercavano il fresco sostando su uno scoglio, chi guardando verso l’isola, chi guardando l’acqua. Li salutai timidamente, e mi risposero con gesti meccanici, un po’ forzati, certamente figli dell’imbarazzo nel trovarsi in quel frangente informale con un loro superiore. Non volendo disturbare la loro notte tornai poi nella mia tenda, dove riuscii finalmente a cadere in un sonno leggero.

Venne mattina, e dopo una colazione a base di pesce arrostito – le coste di Malu Malu sono molto pescose, e la ciurma ha buon gioco con le lenze – avvistammo la scialuppa che procedeva a colpi di remo dalla Timorazza. Subito le attività dell’accampamento si interruppero, e come per tacito accordo tutta la ciurma di terra si allineò al bagnasciuga. Tutti attendevamo maestro Filippo che, come per la mia prima missione, sarebbe stato mio anfitrione e guida. Ma quando il legno ebbe coperto ormai metà del tragitto fu chiaro che sulla scialuppa erano presenti solo Moliabre ed un altro marinaio, e di maestro Filippo non c’era traccia.

Mi vedo costretto a interrompere qui il racconto. Come vi dicevo in apertura, i fatti sono molti ma le mie energie scarseggiano. Prometto di riprendere domattina, con maggiore freschezza, il filo degli eventi.

Servo vostro,

L.

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