Lettere da Malu Malu #10: mi parrà poca cosa

GIORNO 14

Luminosissimo maestro,

riprendo questa mattina a mente lucida il racconto iniziato ieri notte sull’onda dell’entusiasmo. Avevo sopravvalutato le mie forze, come certo indovinerete dal numero di fogli che dedicherò agli eventi. Vi ho anticipato ieri che sulla scialuppa non era presente maestro Filippo, ma solo Moliabre, il secondo del capitano. Egli, in piedi nonostante il rollio della barca, guardava verso la costa a braccia incrociate e con aria tronfia. Il motivo è presto detto: maestro Filippo aveva affidato a lui il compito di consegnarmi un involto, ed egli si sentiva quindi gonfio d’importanza, giacché il mago maestro aveva così dimostrato la misura della fiducia che gli riservava.

Devo dire che tale orgoglio non era del tutto fuori posto, come compresi all’apertura dell’involto. Mi rendo conto che quanto sto per dirvi è materia estremamente delicata, e sappiate che in nessun momento sarà mia intenzione mettere in dubbio l’operato di maestro Filippo. Come ben sapete sono però vincolato da un impegno di sincerità e completezza. Ebbene, leggete gli eventi così come ve li racconterò. Saprete poi voi trarre le dovute considerazioni.

Moliabre scese dalla scialuppa e, con passo altezzoso e ampli movimenti sdegnosi, mi raggiunse. Poi, facendo in modo che tutti i presenti ben vedessero, estrasse dalla bisaccia un involto di sottile pelle di daino racchiusa da uno spago, e scandì bene, a voce alta: “Questo viene da maestro Filippo. Per voi, Limonberto.”

Come immaginerete tutta la ciurma di terra si era raccolta attorno a noi due, e tutti osservavano con grande anticipazione lo scambio. Per quanto mi riguarda mi trovavo in uno stato emotivo ricco di contraddizioni, giacché la curiosità per conoscere ciò che maestro Filippo aveva in serbo confliggeva con il desiderio di insegnare l’umiltà a Moliabre, che sfruttava quest’occasione per acquisire status e rispetto tra la ciurma. Non fui però un completo sprovveduto, e rammentando il secondo precetto tenni a mente ciò che importava. Decisi quindi di lasciare a Moliabre la sua piccola vittoria, accettai il pacchetto e mi recai nella mia tenda, per aprirlo e studiarlo con calma. I membri della ciurma rumoreggiarono, rosi dalla curiosità. Fu però lo stesso Moliabre a richiamarli all’ordine. “Cani!”, gridò, “questi non sono affari per voi. Tornatevene al lavoro!” Lo fece con tono complice, come se lui conoscesse il contenuto dell’involto, e il fatto mi disturbò alquanto. Ma, giudicando la questione di poco conto, me ne tornai nella mia tenda.

Aprendo l’incarto vi trovai un altro piccolo pacchetto avvolto nella tela cerata e accompagnato un foglio, ripiegato. Vi trascrivo qui il contenuto:

Risali la facciata dell’isola. Porta con te molto olio e molta esca. Avanza il più possibile e dà fuoco agli alberi più grandi che troverai. Contro il veleno usa lo spirito che trovi con questa lettera. Risponde al comando —
Sii celere.

Immaginerete il mio stupore. Con quell’atto maestro Filippo aveva esplicitamente violato due regole del Canone. Aveva in primo luogo affidato ad esterni il trasporto di un uovo spirituale, una trasgressione che può essere giustificata solo da condizioni di estrema urgenza – ricordo quando mi raccontaste la vicenda di Maestro Tolu e del messaggero infedele, con tutte le sue nefaste conseguenze. La nostra situazione non pareva però giustificare in alcun modo tale linea d’azione, in quanto mi era difficile scorgerne l’urgenza.

La seconda infrazione, sotto certi aspetti ancora più grave, era il mettere per iscritto, senza nemmeno ricorrere a codici e cifrari, la parola di comando necessaria per attivare lo spirito contenuto nell’uovo. Per la prima azione potevo immaginare delle giustificazioni – forse maestro Filippo si sentiva poco bene, o forse era immerso nello studio e preferiva non lasciare la Timorazza. D’altra parte egli avrebbe con altrettanta facilità potuto mandare a chiamarmi, quindi non trovavo e non trovo giustificazioni al suo comportamento. E comunque, quali che fossero i suoi motivi, la seconda infrazione è ben più grave. La prima poteva risultare, nel peggiore dei casi, nella perdita di un uovo, peraltro una proprietà personale di maestro Filippo a quanto mi pare di capire. Ma la seconda è gravissima. Cosa potrebbe succedere se un’intelligenza ostile venisse in possesso dei comandi? O se qualche sfortunato civile, magari un membro dell’equipaggio, decidesse di provare a usare lo spirito senza avere in sé né tsolo né disciplina?

Le poche parole di maestro Filippo ebbero il potere di stupirmi, e amareggiarmi, e anche farmi arrabbiare. Ma, comprenderete anche voi, egli è il mio diretto superiore, e non è certo mio compito criticare il suo operato. Ad ogni buon conto mandai a memoria il comando e poi, con un coltello, grattai la carta del messaggio in quel punto, fino a forarla.

Un poco tranquillizzato dalla distruzione di quella prova decisi di dare comunque seguito alle istruzioni ricevute. Mandai a chiamare e raccolsi olio ed esca. Non vi tedio con i dettagli, basti dire che risolsi a trasportare quattro otri di pelle di capra pieni di olio combustibile. Non potevo infatti caricarmi molto, data la faticosa salita che dovevo affrontare. Inoltre, per quanto ubbidissero alle mie richieste senza protestare, fu chiaro che una parte della ciurma era contraria a quella piega eventi. L’olio è prezioso, e non avevamo certo modo di fare rifornimento.

Fu così che mi ritrovai ancora una volta ai piedi della scogliera purpurea. Devo dire che i rocciatori avevano fatto davvero un ottimo lavoro, armando la parete di molti supporti. La catena aderiva bene alla roccia, e v’erano spesso grandi anelli in cui si poteva infilare con agilità la mano o il piede. Guardai su e la salita mi parve, sì, una grande fatica, ma anche solo quello. L’isola aveva perso la sua inafferrabilità. Avevo qualche dubbio sulla mia condizione fisica, giacché come vi ho già scritto una gamba ancora mi doleva per la caduta. Non avevo però intenzione di farmi scoraggiare.

Il mare sciabordava nelle solite fenditure, ancora mugghiando e producendo quei suoi rumori animaleschi. Senza badare troppo alla ciurma che si era raccolta attorno a me, posai una mano sulla roccia lilla e porpora e iniziai a salire.

Fu un affare lento, e faticoso, ma anche vuoto di imprevisti. Dovetti spesso prendermi delle pause, e ammetto che la prima volta che abbassai lo sguardo e vidi la spiaggia, molte braccia sotto di me, ebbi un piccolo capogiro. Ma sono eventi di poco conto, e comunque il mio cuore anelava la meta. Oggi avrei nuovamente Comandato, oggi avrei ancora messo a buon frutto i vostri luminosi insegnamenti. Avevo una piccola bisaccia a tracolla, e nella bisaccia l’uovo, oltre alla mia personale gorgiera: maestro Filippo non aveva voluto fornirmi la sua, che forse avevo danneggiata durante la mia penultima spedizione.

Il confronto con l’altra risalita fu impietoso. Quando nel mio tsolo albergava lo spirito del crisoprasio questa stessa parete mi pareva una strada piatta, un campo dove potessi quasi correre, o quasi volare. Ora, nonostante la catena, mi ci volle credo più di un’ora per conquistare la cima. Dovetti fermarmi più volte a riprendere fiato e dare tregua alla gamba dolorante, oltre che per non affaticare troppo le braccia ferite. Ma infine arrivai, finalmente conquistai la cima, e una volta issatomi potei ancora una volta abbracciare con lo sguardo una sì grande parte del mondo: l’istmo, sotto di me, con la Timorazza placidamente all’ancora. E poi la parete rocciosa, che proseguiva alla mia sinistra fino a incontrare una prima cascata che con generosità immutata ancora gettava acqua tra molti arcobaleni e spruzzi. E poi finalmente l’entroterra, coi suoi segreti: quando finalmente mi rivolsi all’interno, volgendo le spalle alla scogliera e al grande baratro, quasi mi mancò la forza nelle gambe. L’isola era cambiata.

Per correttezza so che dovrei dire: la foresta era cambiata. Così come è precetto non assegnare pensieri ed emozioni agli spiriti, così so che non dovrei donare identità a ciò che identità non ha. L’isola è e resta un insieme di acqua, sassi, terriccio, piante, animali e nativi. Null’altro. Lo so, mi è chiaro, così come mi è chiaro che usiamo la parola spiaggia per indicare la moltitudine di microscopici cristalli che segnano il limine che tra terra e acqua. Lo so. Eppure.

Eppure il mio pensiero fu quello. L’isola era cambiata. Di certo lo era la vegetazione, tanto che faticai a orientarmi e ritrovare qualche similitudine con quello che avevo visto durante l’ultima missione. Le cime degli alberi formavano ora una coltre scura, impenetrabile ai raggi solari, tanto che il sottobosco sembrava in grande sofferenza e faceva già gran mostra di foglie gialle, rinsecchite e moribonde. E su tutto dominavano le liane velenose, di cui i quattro marinai avevano portato un campione a così gran costo. Vi confermo qui, per iscritto e a mente fredda, ciò che fu il mio primo pensiero: non era possibile. Non vi è pianta nota in grado di crescere a tale velocità. In soli cinque giorni quelle liane avevano conquistato ogni spazio, strangolando gli alberi più flessibili e drappeggiando quelli più robusti. Penetrare nell’isola sarebbe stato per me un mestiere lungo e penoso, un continuo cercare pertugi e ritracciare i propri passi. Non provai nemmeno a tagliare le liane per aprirmi un percorso a forza: non avevo motivo di dubitare delle parole dei marinai quando parlavano della grande tenacia di quelle fibre giallastre, e con me avevo solo piccolo taglierino, di certo inutile in quel frangente.

Dei nativi non vi era traccia, ma come vi ho scritto non si vedeva quasi il cielo, e anzi tutta la scena risultava scura e appesantita. Cercai di non perdermi d’animo e mi concentrai sul prossimo passaggio: Comandare. Badate che a questo punto non avevo chiaro perché maestro Filippo avesse scelto questo specifico spirito, che secondo il suo giudizio mi avrebbe aiutato contro il veleno delle liane. Estrassi e indossai la gorgiera, con una certa fatica a causa delle molte cinghie degli otri d’olio. È la medesima gorgiera di cuoio che ben conoscete, giacché ne ho fatto uso per la grande parte del mio addestramento. Indossai i guanti e aprii l’involto di tela cerata, rivolgendo poi tutta la mia attenzione all’uovo spirituale, ponendo grande cura a non toccarlo per sbaglio con la pelle nuda. Mi ero ormai fatto l’idea che gli spiriti in possesso di maestro Filippo fossero di grande potenza e non volevo che per sbaglio si introducessero nel mio tsolo prima che fossi pronto.

L’uovo si rivelò di essere di un bel lilla screziato da molti filamenti bianchi, simile per dimensioni ad un uovo di gallina. Immagino fosse un’ametista, o forse più facilmente una lepidolite, ma senza consultare un lapidario mi è difficile dirlo con certezza. Ripassai il comando mentale, posizionai l’uovo nell’alloggiamento della gorgiera, scacciai dalla mia mente i ricordi dolorosi della mia ultima missione, mi concentrai, e finalmente feci scattare il meccanismo. 

L’uovo entrò in contatto con la mia gola e subito arrivò lo spirito: ricevetti l’immagine di un groviglio di serpenti. La massa strisciava e si annodava a se stessa, in una continua e caotica rivoluzione. Lo stesso colore lilla della pietra era ripreso molte volte nelle scaglie dei rettili, o almeno di alcuni di essi, mentre altri mostravano le stesse colorazioni brune e verdi comuni alle creature delle nostre terre. Ho sentito parlare di spiriti collettivi, e non ho quindi modo di capire se mi trovassi davanti ad una singola entità dal corpo multiplo o se ciascun serpente fosse un minuscolo spirito indipendente. Poco cambia: così come vi è comodità di parlare di un battaglione anche quando ciascun soldato è un essere umano indipendente, io mi riferirò ad esso da qui in poi come allo spirito dei serpenti.

Lo spirito prese possesso del mio tsolo con il suo movimento affastellato, e lentamente si espanse. Alcuni serpenti si staccarono dalla massa principale e strisciarono sulle colonne, stringendo i capitelli e strozzando i marmi. Questo arrivo corrispose con il diffondersi nel mio corpo di una strana sensazione, un benessere freddo e anestetizzante. Vi ho già detto che recavo ancora i segni dell’ultima missione: le mie braccia erano coperte di ferite in fase di guarigione, ma ancora fresche, e la mia gamba destra dolorava, anzi pulsava sordamente dopo lo sforzo della salita. Ebbene, queste sensazione di malessere rapidamente svanirono. Aprii gli occhi e mi guardai con incredulità le braccia. Non potevo dire che mi sentissi più forte, ma certamente il dolore era scomparso, assieme forse a una porzione di sensibilità. Mi toccai i palmi delle mani e li trovai molto meno capaci di discernere il contatto con il mondo esterno. La mia pelle si era fatta come distante. Fui avvolto anche da una grande sonnolenza, che cercai di combattere scrollando il capo. Per non cedere al torpore mi concentrai sul compito che mi aspettava: penetrare la foresta, il più possibile, e appiccare un incendio.

A terra ancora giaceva la corda a nodi che io stesso avevo portato, alcuni giorni fa, che da un lato si gettava giù dal dirupo mentre dall’altro si inoltrava tra le frasche. Se bene ricordate mi ero aperto a forza un percorso di dieci o venti braccia nel fitto della foresta, fino all’albero dal piede panciuto a cui l’avevo legata prima del mio funesto incontro con i nativi. Ora la corda era posata ai miei piedi e si inoltrava nel fitto della boscaglia, perdendosi rapidamente in una ragnatela di liane e arbusti. Mi risolsi di provare a seguirla.

Inoltrarsi nella densissima vegetazione fu un’impresa difficile e logorante. Fui costretto a pressarmi contro spine, ramaglie e scomode concrezioni vegetali, con le cinghie dei miei otri che si impigliavano di continuo. L’influenza anestetizzante dello spirito dei serpenti mi rendeva di certo insensibile agli incidenti di minore entità, piccoli tagli e graffi che come immaginerete iniziai a procurarmi a dozzine. Ma anche con quell’aiuto procedevo lentissimo.

Avrete notato che non avevo ancora Comandato lo spirito, e semplicemente mi limitavo a conservarlo nel mio tsolo e godere della sua influenza passiva. Il motivo è semplice: temevo cosa sarebbe successo quando avessi dato il comando. Il Canone sconsiglia di Comandare spiriti sconosciuti e, sebbene non dubitassi della buona fede di maestro Filippo, il suo comportamento era stato, come dire, peculiare e per nulla rassicurante. Considerate anche l’incidente della mia prima missione e capirete con facilità perché non accoglievo con gioia l’idea di Comandare.

Avvolto in questi pensieri avanzai per quanto possibile in quella selva, sempre cercando di tenermi lontano dalle liane, che sapevo avvelenate. Non voglio allungare ulteriormente questo già fin troppo lungo racconto, e basti quindi dirvi che prestai attenzione, e mi sforzai, e feci tutto quando fosse in mio potere, fino al momento fatale in cui un piccolo errore si rivelò costoso. Tra tentativi abortiti e retrocessioni avevo utilizzato forse un’ora del mio tempo per avanzare di cinque braccia o poco più, e la stanchezza venne a riscuotere il suo pedaggio. Mi ero dovuto issare a forza di braccia sopra un ramo per evitare uno spinosissimo arbusto, simile per dimensione ad un cespuglio di ginepro ma ferocemente irto di aculei. Ebbene, il ramo a cui ero aggrappato si flettè sotto il mio peso, la presa delle mie mani venne a mancare, e io rovinai proprio tra le spine.

Fu un evento strano e spaventevole, forse ancora di più perché non vi fu dolore: lo spirito in me bene attutiva le nefaste conseguenze della mia caduta, ma con orrore realizzai che molti aculei si erano confitti nelle mie carni. Ne vedevo uno, lunghissimo, che mi entrava nel polpaccio trafiggendolo da parte a parte. Altri, numerosi, mi penetravano tra le costole. E con grande panico realizzai che anche il mio orecchio sinistro era stato trapassato. Nuovamente mi ritrovavo a versare sangue su Malu Malu, e sebbene non provassi dolore venni travolto dallo sgomento alla vista dei miei vestiti che si scurivano a contatto con le ferite.

Fu in queste condizioni che lo spirito dei serpenti diede segno di irrequietezza. In un primo momento pensai che, come lo spirito del crisoprasio, esso fosse stato travolto da quella strana furia che poteva renderlo instabile e pericoloso. Ma presto compresi che mi trovavo davanti ad un fenomeno diverso: i serpenti erano eccitati, e aumentavano il loro aggrovigliarsi. Desideravano qualcosa, ma senza ostilità.

Provai comunque a sollevarmi con le mie sole forze. Faticai a liberare la testa da quello scomodo abbraccio, e quando mossi la gamba e con grande attenzione sfilai la spina dal mio polpaccio venni accolto da un fiotto di sangue, chiaro e guizzante. L’aculeo doveva aver penetrato chissà quale vaso. Non pensai di essere in pericolo di vita, ma avevo certamente bisogno d’assistenza. Lo spirito ancora si agitò e fremette dentro di me e io ebbi la chiara impressione che esso mordesse il freno. Desiderava fare qualcosa, e l’attesa lo innervosiva.

Il Canone vuole che non si Comandino spiriti irrequieti, o che mostrano comportamenti strani. Per capire le mie azioni devo quindi confessare che in quell’istante fui preso dallo sgomento. Mi sentii solo, e lontano da casa, e tragicamente debole. Lo spirito costituiva l’unico tenue legame con la mia forza, il mio addestramento, tutto quello che mi rende ciò che sono. Chiusi gli occhi e diedi il comando.

I serpenti, finalmente liberi di agire, accolsero la mia parola con un coro di sibili, decine, centinaia di bocche oscenamente spalancate come fiori rosa, a disvelare denti acuminati e lingue guizzanti. E poi iniziarono la muta.

In patria non ho mai assistito alla muta di un serpente, sebbene sia fatto noto che queste creature ogni qualche mese si sbarazzino della vecchia pelle per vestirne una nuova. Il mio tsolo fu invaso da un’attività frenetica, i serpenti iniziarono a tremare, vibravano come corde pizzicate di una chitarra, ciascuno facendo il possibile per liberarsi da se stesso. Le scaglie perdevano il loro tono sgargiante e si facevano opache mano a mano che ogni serpente si liberava della sua vecchia pelle per uscire lucido e bagnato e fare mostra di una nuova livrea.

L’immagine fu notevole, e onirica, e quasi mi dimenticai dello scomodo letto su cui giacevo, quando un grande formicolio mi attraversò tutto il corpo e riportò la mia attenzione sul presente. Fui invaso da una grande forza e, sotto i miei occhi increduli, vidi la ferita zampillante sul polpaccio smettere di gettare sangue. Anche molti altri graffi e tagli che avevo collezionato iniziarono un portentoso processo di guarigione. Non svanirono, badate, ma in pochi momenti mi trovai coperto di croste che, dall’aspetto, avrei giudicato vecchie di almeno una settimana. A fatica mi rialzai, e constatai che il procedimento avanzava spedito. Le nuove ferite si chiudevano, le vecchie ferite miglioravano. Questo spirito, che maestro Filippo mi aveva affidato con tale leggerezza, era in grado di operare una guarigione straordinaria, spingendo il mio corpo a compiere nel giro di pochi minuti un processo che avrebbe necessitato giorni o addirittura settimane per completarsi.

Fui in piedi, e respirai a pieni polmoni l’aria scura della foresta. D’improvviso le prospettive erano cambiate radicalmente, l’impresa mi sembrava a portata. Confesso che in quel momento mi sentii invincibile. I serpenti avevano intanto per la larga parte terminato la muta, e il mio tsolo era ormai cosparso di pelli abbandonate, traccia del portento appena avvenuto.

Con rinnovato vigore mi gettai contro la foresta, e avanzai con foga, noncurante del contatto con le liane, il cui veleno ora mi pareva innocuo. Ignorai anche spine e aculei, che più volte mi morsero le carni, solo per dare occasione ai serpenti di prodursi in nuove mute, che ancora risultavano nelle medesime, portentose guarigioni. In meno di mezz’ora riuscii a coprire quasi venti braccia di vegetazione, conquistando il centro della foresta, ovvero il punto mediano tra il dirupo alle mie spalle e le praterie davanti a me. Ritrovai l’albero dal piede panciuto, a cui ancora era legata la cima della mia corda a nodi. O meglio, credo fosse lo stesso albero, nonostante avesse cambiato aspetto, anch’esso si era ricoperto di spine, e la sua corteccia ora costituita da scaglie dall’aspetto malevolo, molto taglienti e pronte a straziarmi le carni.

Decisi che quello sarebbe stato un buon punto per appiccare l’incendio. L’albero, sebbene trasfigurato, restava poderoso, tanto da non entrare nell’anello delle mie braccia. Giudicai che esso contenesse molta e buona legna, e una volta infiammato avrebbe garantito molte ore di fiamme. Procedetti quindi come potete immaginare: inzuppai la base dell’albero prescelto e parte del tronco, fin dove arrivavo, con l’olio di due dei quattro otri che avevo con me. Usai la rimanenza su altri arbusti, e soprattutto sulle liane, che per la loro natura sottile potevano naturalmente fungere da esca e ben condurre la fiamma. Quando anche l’ultimo otre fu svuotato tutta la boscaglia attorno a me ormai emanava l’odore un po’ rancido dell’olio. Mi guardai attorno e, soddisfatto, estrassi ed accesi un mozzicone di candela che recavo con me. Con esso appiccai il fuoco in quattro punti diversi.

Attecchì a fatica, e con molto fumo, e già temevo di dover compiere un altro viaggio o, peggio, dichiarare sconfitta, ma lentamente il fuoco prese vigore e la sua voce, per molti minuti uno scoppiettare timido e malaticcio, divenne prima un canto vigoroso e poi un ruggito. Era passata forse mezz’ora e il calore emanato si sopportava a fatica, e vedevo ormai molte e gioiose fiamme correre proprio su quelle stesse liane che tanto ci avevano ostacolato, e che ora si stavano rivelando le nostre migliori alleate. Mi avviai quindi verso la discesa, non volendomi ritrovare circondato da quel ruggente inferno.

Affacciatomi al dirupo venni accolto da una salva di esclamazioni. La ciurma infatti era radunata lì sotto, in attesa, e le grandi volute di fumo che si alzavano verso il cielo avevano certamente annunciato il successo della mia impresa. Mi apprestai quindi a scendere, in maniera meno drammatica ma certamente più sicura della volta precedente. Gettai un ultimo sguardo verso le fiamme, che si espandevano gioiose, e in quel frangente mi parve di vedere due volti bianchissimi, del color delle ossa, che mi guardavano dal folto della foresta. Ma fu questione di un momento, e il fumo presto coprì tutto.

Posai il primo piede sulla catena, e poi il secondo, e poi ancora, e d’un tratto mi resi conto di essere divorato dalla fame. Il mio stomaco gorgogliava, e quasi la saliva mi usciva copiosa dalle labbra. Il motivo l’avrete immaginato: lo spirito dei serpenti, per operare la sua prodigiosa guarigione, aveva consumato moltissime delle risorse che il mio corpo aveva a disposizione. Decisi, ad ogni buon conto, di mantenerlo dentro il mio tsolo, e di sopportare per un po’ i morsi della fame. Volevo evitare che, espellendolo, tornasse il dolore, che certamente mi avrebbe impedito una discesa serena.

Discesi. Non accadde nulla di notevole e un passo alla volta raggiunsi l’istmo, dove venni accolto dalla ciurma in festa, a cui richiesi subito che arrostissero molti pesci per me. D’altra parte l’ora del pranzo era passata da poco: la mia impresa era durata poche ore, tre o quattro al massimo, e nessuno giudicò innaturale il mio appetito.

Ebbi occasione di chiudere con calma il mio Comandare, espellendo lo spirito secondo la pratica canonica e riponendo l’uovo nel suo involto. Come avevo ipotizzato, quando lo spirito abbandonò il mio tsolo fui nuovamente travolto dal dolore, i molti graffi e tagli collezionati durante l’impresa iniziarono a bruciare e le vecchie ferite tornarono a farsi sentire, anche se in misura molto più ridotta. La gamba, in particolar modo, tornò a funzionare alla perfezione, e credo di poterla ormai dichiarare guarita.

Perché maestro Filippo non mi diede prima l’accesso allo spirito dei serpenti?

Egli sapeva della mia condizione, e di quanto faticassi nelle operazioni quotidiane. Eppure egli ha deciso di darmi accesso all’uovo solo quando altre esigenze l’hanno richiesto. Tiene forse in così poco conto il mio benessere? Sbaglio, a fare questi pensieri?

Perdonate questo piccolo sfogo. Ho fiducia che quando infine leggerete queste mie parole la questione sarà da tempo conclusa e mi parrà poca cosa.

La giornata si svolse poi fra pochissimi eventi, ma vi è ancora un fatto che ritengo di dovervi raccontare. Nel pomeriggio vi scrissi la mia penultima lettera, la nona. Lo feci mentre le fiamme, furiose, imperversavano sulla cima della scogliera, e si allargavano. Io sapevo che il danno che avrebbero potuto fare era limitato perché avevo visto la peculiare forma ad anello della foresta, e sapevo che non avrebbero potuto minacciare in alcun modo le grandi praterie dell’interno dell’isola. Così, in mezzo ai volti preoccupati della ciurma, feci gran mostra della mia serenità, usai tutte le forze residue per scrivervi la lettera, e poi andai a riposare.

Dormii per forse un’ora, forse poco più. So che venni svegliato da un gran tuono, e dalle voci concitate della ciurma attorno a me. In un attimo fui fuori dalla mia tenda e mi si offri un grande spettacolo: il cielo era ormai trascolorato, il sole si era appena tuffato in mare, e sulla cima dell’isola si era addensata una nuvola, un nembo compatto e densissimo nell’aspetto, sebbene di modeste dimensioni. La nuvola si scuriva sotto i miei occhi, increduli tanto quanto quelli degli altri marinai, per poi essere illuminata da uno, due, tre lampi che ne animarono il nucleo. L’isola stava andando ancora a fuoco, e durante il mio sonno le fiamme si erano allargate con pigrizia, estendendosi per alcune decine di braccia a destra e a sinistra, comunque vincolate dal crinale della scogliera, tanto che periodicamente cadeva qualche brace sul mare sottostante.

La nuvola si addensò, compattissima, e quasi parve che un’intelligenza maliziosa la muovesse: infatti le correnti ascensionali generate dall’incendio fatalmente la attrassero, e in un momento la nube già sovrastava le fiamme. Ancora un lampo, ancora un rombo, e poi l’acqua sospesa in quel ventre gassoso si liberò violenta sul fuoco sottostante. Subito si levò bianchissima una coltre di vapore, che risalì l’aria fino a riunirsi a quella stessa nuvola che l’aveva generata.

Tutto questo avveniva nel tempo breve del crepuscolo, e sotto i miei occhi vidi l’incendio ridursi prima a fiamme minute, poi a braci, poi a niente. Nel cielo nascevano timidi i fuochi delle stelle, mentre sull’isola i fuochi che tanto avevo faticato ad accendere si spegnevano uno a uno.

Così si chiudeva la giornata di ieri. Ho dedicato la giornata di oggi al riposo e a scrivervi questo mio resoconto, fatalmente lunghissimo, e quasi non sono uscito dalla mia tenda. Scoprirò, con domani, cos’altro ha in serbo l’isola.

Servo vostro,

L.

Solite cose social:

2 comments

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *