Lettere da Malu Malu #12: con la luce violenta del tramonto

GIORNO 17

Luminosissimo maestro,

è appena sorto il sole e vi scrivo dalla mia cabina. Mi ci sono rinchiuso nonostante essa mi paia ancora più minuscola e soffocante dopo giorni di libera permanenza sull’isola. Ma l’unica alternativa era stare sul ponte e guardare il lento dondolare del corpo di Curcumello, appeso oscenamente all’albero di mezzana come una macabra decorazione. Preferisco di gran lunga questo ambiente angusto. In giornata, se potrò, tornerò sulla terra ferma.

Come ricorderete Curcumello era stato responsabile della distruzione della nostra unica scialuppa, ed anche di una parte corposa della polvere nera della bombarda. Quando l’abbiamo recuperato, in mare, era in uno stato di catalessi profonda, come se sognasse pur mantenendo la veglia. Durante tutta la giornata egli è rimasto solo parzialmente cosciente, ed in quello stato ha affrontato le vicende di ieri, che mi appresto a raccontarvi. Ogni mio sforzo per salvarlo è stato vano, e anzi io stesso ho rischiato di seguire la sua stessa sorte, tanto che ora mi trovo percorso da brividi e paure e, ad ogni buon conto, ho preferito improvvisare una piccola fortificazione che bloccasse la porta della mia cabina. Voglio che sia chiaro, non credo che subirò attacchi o ritorsioni, ma lo spavento è tale che solo con questo piccolo stratagemma ho avuto speranza di calmare il mio cuore e prendere sonno.

Ieri mattina, dopo che ho finito la lettera, i primi nuotatori hanno iniziato un faticoso collegamento con la Timorazza. Subito la situazione si è fatta tesa quando Capitano Tirso è venuto a sapere dell’accaduto. La caravella è ormeggiata a forse un centinaio di braccia dall’istmo, epperò le grida e le bestemmie del capitano sono arrivate forti e chiare fino all’accampamento. Egli è tornato ad essere il feroce tiranno che avevo conosciuto durante la traversata, e non ho dubbi che se Curcumello fosse stato a bordo con lui l’avrebbe ucciso con le sue proprie mani in quel frangente.

La difficoltà del collegamento ha però contribuito a raffreddare gli animi. Non vorrei perdere tempo nei dettagli, mi basti scrivere che sulla caravella era accatastato sufficiente materiale da poter improvvisare una zattera, legando assieme una paratia con del fasciame tenuto a bordo per le normali riparazioni. Il dover sopperire all’assenza di una scialuppa, mi pare di capire, non è raro per chi sta in mare, e la ciurma mi è parsa ben pronta ad affrontare codesta piccola difficoltà. Questa sarà, credo, l’unica nota positiva del mio resoconto.

In breve, una volta costruita la zattera, fummo mandati a chiamare io, Curcumello, Moliabre e pochi altri marinai. Gli altri seguirono di loro volontà, chi attendendo il proprio turno sulla lenta zattera, chi a nuoto. A mezzodì l’accampamento era ormai deserto e tutti ci ritrovammo sul ponte della Timorazza, molti marinai appesi al sartiame per spiare meglio la scena, che si annunciava drammatica.

Il fulcro dell’assembramento era il povero Curcumello. Egli, i polsi legati, sedeva a terra abbracciandosi le ginocchia e teneva il capo chino. La sua si sarebbe detta una posa di contrizione, sintomo di grande pentimento interiore. Ma in verità egli sonnecchiava, e anzi quando il capitano lo chiamò, prima con serietà e poi impazienza, egli a malapena sollevò il capo. A quel punto il capitano, invaso dalla furia, afferrò un tratto di gomena che giaceva abbandonato e con esso cominciò a frustarlo con rabbia, gettando fuori improperi che per pudore non riporto.

L’assalto ebbe almeno il risultato di scuotere Curcumello, che come si svegliò e iniziò a dibattersi e scivolò e tentò finché non riuscì a tirarsi in piedi. Questo gesto venne interpretato come un tentativo di fuga, anche se a me parve più la reazione nervosa di chi viene svegliato di soprassalto. Subito molte mani lo afferrarono e lo costrinsero nuovamente a terra, anche se questa volta in ginocchio, e lì fu tenuto. Il capitano Tirso si prese ancora la soddisfazione di menare un’altra frustata direttamente in volto a Curcumello, che iniziò a sanguinare dal labbro.

In mare l’autorità del capitano è assoluta, e non sono rari i racconti di punizioni sommarie comminate secondo arbitrio. In quel momento pensai che, se avessi lasciato scorrere gli eventi, il capitano si sarebbe limitato a chiudere la questione lì, con le sue mani, e davanti a tutti. Epperò sentivo di non poter lasciare che gli eventi precipitassero in tale barbarie. Siamo rappresentanti della corona. Siamo uomini liberi. Siamo meglio di questo.

“Va fatto un processo.”

Parlai senza ponderare troppo le parole. Ammetto che il mio cuore fosse in tumulto, ma anche ora, nonostante le conseguenze, non rinnego le mie parole, che peraltro ebbero l’effetto di far calare un silenzio teso sul ponte. Capitano Tirso rivolse verso di me il suo grugno cattivo e, platealmente, sputò su Curcumello. Egli pensava di aver così chiuso la questione, e ammetto che io stesso sentii la mia sicurezza scemare. Mi venne però in aiuto, e a sorpresa, Moliabre, il secondo.

“Limonberto ha ragione, signore.” Egli parlò come un agnello, muovendosi con l’agilità di un diplomatico navigato su quel terreno incerto. “Facciamo un processo, sentiamo tutte le parti. Voi sarete comunque giudice, signore. Ma almeno sarà una questione pulita.”

La ciurma trattenne il fiato, e io con loro. Dalle sue parole era chiaro che Moliabre considerasse comunque già deciso il destino di Curcumello, ma provai comunque gratitudine. Un processo ci avrebbe evitato la barbarie di un’esecuzione sommaria, e magari vi sarebbe stata occasione per comprendere meglio le ragioni dei fatti della notte precedente. Il capitano mostrò l’espressione nauseata di chi porta alla bocca cibo avariato, ma poi si rilassò, gettò a terra il tratto di gomena che ancora reggeva in mano e borbottò qualcosa di incomprensibile mentre si allontanava alla volta del castello di poppa.

La ciurma scoppiò in innumerevoli chiacchiere e, passata la tensione del momento, tutti furono travolti dall’ansia di conoscere gli sviluppi della faccenda. Già mi giungevano alle orecchie pronostici, e scommesse, e le più inani considerazioni che per rispetto non vi riporto. Mi parve che tre, soli, evitammo di mescolarci alla ciurma. Io, che sentivo una certa responsabilità per aver messo in moto tale marchingegno, e mi chiedevo se per caso non avessi ecceduto le mie mansioni a bordo. Curcumello, che mostrava il bianco degli occhi e, tanto egli era sonnacchioso e impassibile quando fu portato a bordo, tanto ora era in preda ad un terrore folle e, fatalmente, giustificato. E poi Moliabre, che prima di occuparsi dell’allestimento materiale del processo si prese il gusto di lanciarmi uno sguardo sardonico e carico di significati misteriosi.

Ci si dispose per pranzare, e alcuni marinai vennero mandati a terra per recuperare delle vettovaglie, giacché non pareva opportuno intaccare le riserve secche della Timorazza. Mangiammo tutti sul ponte, e in un’atmosfera tesa. Curcumello veniva guardato a vista, e ad ogni buon conto non gli venne consegnato neanche il cucchiaio per paura che lo spezzasse ed usasse le scaglie di legno come arma in una qualche lotta disperata. Il capitano, dall’alto del cassero, guardava la ciurma, a tratti ancora fumante di rabbia, a tratti divertito. Io colsi occasione per scendere rapidamente sottocoperta e informare maestro Filippo di quanto stava accadendo. Bussai alla sua porta e venni accolto dal solito sbraitare che mi intimava di allontanarmi. Questa volta, date le circostanze, decisi di insistere, e attraverso il legno sintetizzai i fatti: il furto della scialuppa, l’esplosione della polvere nera, Curcumello e il processo. Finii, e rimasi in attesa, ma a tutta prima non giunse nessuna risposta, e già stavo per andarmene quando sentii un brusco strisciare di legno su legno. Maestro Filippo si doveva essere barricato nella sua stanza, che mi parve strano a dirla tutta, ma nella concitazione del momento non gli diedi poi molta importanza.

Il maestro era provato in volto, e pareva reduce da una o più notti di scarso sonno e molti pensieri. Anche la barba ora gli cresceva scomposta, e il breve sguardo che potei gettare sulla sua cuccetta mi diede più l’impressione della tana di un animale che dello studio di un intellettuale. Senza dire nulla maestro Filippo richiuse la porta dietro di sé e si avviò verso il ponte.

Un processo non può essere ufficiale senza documenti. Si pose quindi il problema di chi avrebbe svolto la mansione di scrivano, e già immaginavo che sarei stato chiamato a ricoprire quel ruolo, giacché mi era parso di capire che la ciurma fosse formata nella sua completezza da illetterati. Comprenderete quindi il mio piccolo stupore quando vidi che era stato preparato un piccolo palco, con una sedia sopraelevata certamente destinata al capitano, e con un piccolo banchetto dotato di calamaio e inchiostro a cui era assiso Moliabre, già intento a riempire vari fogli con gran cerimonie e ampi svolazzi di una magra penna, credo, di gabbiano.

Curcumello era stato malamente gettato davanti al banco di corte così allestito, e ora sedeva cupo e silenzioso sul legno del ponte. Mi presi pena di controllare quale effetto facesse tale visione su maestro Filippo, e vidi sul suo volto una certa tensione, le labbra strette, la mascella contratta. La gravità della situazione doveva aver finalmente fatto breccia anche in lui.

Il pranzo era finito e finalmente iniziò la cerimonia. Capitano Tirso, a questo punto deciso a divertirsi nel nuovo ruolo di giudice, sbraitò nel suo tono gretto che “iniziassero questo spettacolo, cani maledetti”. Moliabre, nella sua veste di notaio, si prese il tempo di sfogliare gli appunti, agendo non come se li avesse appena redatti, ma anzi come se dovesse capire di quale dei molti processi in corso si stesse parlando. Lesse quindi una formula di rito di, ammetto, non banale eleganza. Lesse i nomi di tutti i presenti, un elenco sia lungo e che brevissimo. Credo che, finita questa lettera, vorrò farvi anch’io l’elencazione dei presenti, per provare a dare maggior concretezza al mio racconto.

Moliabre chiamò quindi uno dei marinai, Franco dell’Orso, a cui chiese di raccontare i fatti in oggetto, e di come avesse raggiunto lui, per primo, Curcumello in mare. Franco dell’Orso si rivelò un oratore meno che fluido, e anzi trovandosi al centro dell’attenzione incespicò più volte nelle parole. Peraltro non aveva da dire nulla di più di quanto non fosse davvero noto a tutti, e già pensavo che Moliabre l’avesse chiamato solo per stabilire la cornice degli eventi e che la sua testimonianza non fosse destinata a portare chissà quali sorprese. Poi però, nella sua doppia veste di notaio e, pare, di conduttore del processo, Moliabre gli chiese se fosse lui, Franco dell’Orso, il nuotatore più svelto della ciurma.

“No, signor Moliabre, lo sapete. Quello sarebbe Tommasone” ammise Franco dell’Orso tra qualche imbarazzo. “E com’è che sei arrivato tu per primo da Curcumello, nuotando, e non lui?” incalzò Moliabre. Anche se nessuno aveva ancora capito il significato nascosto di quella domanda la ciurma percepì che la questione si era fatta interessante, e tutti tesero l’orecchio per non perdere la risposta. “Beh…” iniziò Franco dell’Orso tra qualche tentennamento “credo, sì, credo che Tommasone fosse sbronzo marcio.” Scoppiò qualche risata, e anche capitano Tirso si concesse una smorfia lupesca che poteva passare per un ghigno. Moliabre restò invece serio e concentrato sull’interrogatorio, alzò la voce per farsi sentire e chiese ancora “e come poteva essere sbronzo marcio se il capitano è giustamente parco nel distribuire gli spiriti? Dove aveva preso l’acquavite? Chi l’aveva distribuita?” A questo punto calò di nuovo il silenzio, e sentii il fuoco di molti occhi che si concentravano tutti su di me. Franco dell’Orso, senza voltarsi per guardarmi, pronunciò il mio nome.

Seguirono altre due testimonianze, fu chiamato Mulasso detto dei Quattro Coltelli e fu chiamato il marinaio Sgraso, che sempre attira l’attenzione perché gli manca un occhio e nella cavità porta una biglia di marmo azzurro. Dissero le stesse cose che già aveva riferito Franco dell’Orso, ed entrambi terminarono facendo il mio nome. Non ce n’era davvero bisogno, non avevo certo nascosto di aver distribuito io lo spirito ai marinai, ma questo insistere da parte di Moliabre aveva creato un’aria di tensione, come se nel mio operato vi fosse stato qualcosa di malevolo. Più che Curcumello, ormai dato per spacciato, ero io la sua vera preda, tanto che quando chiamò il mio nome affinché testimoniassi non fui nemmeno sorpreso. Anzi, presi posizione al centro dell’assembramento a testa alta e con aria di sfida. Sapevo di essere nel giusto. Quello che non sapevo è quanto un processo, specialmente di quella natura, si basi più sulle impressioni, sui sentimenti che percorrono gli astanti, che non sulla verità dei fatti.

“È indubbio, a questo punto, che Curcumello abbia rubato la scialuppa e la polvere” disse Moliabre senza scomporsi “o vuoi negare, mago?” Ma ovviamente non volevo negare. Non avevo sentito nulla da Curcumello, ma tutti lo avevamo visto in acqua, e insomma non aveva senso difendere l’indifendibile. Moliabre continuò. “La scialuppa si trovava ormeggiata all’istmo, vero?” Ancora, tacitamente, acconsentii. “Se fosse stata al traino della Timorazza sarebbe stato difficile per lui rubarla, vero? E dimmi, mago, perché la scialuppa era all’istmo e non legata alla caravella?” Dovetti ammettere a denti stretti che era lì perché l’avevo fatta venire io. Ero salito a bordo, dovevo vedere maestro Filippo – anche se poi egli mi scacciò – e recuperare l’acquavite. Avevo ormai capito dove Moliabre stava conducendo l’interrogatorio, ma non potevo fare nulla per fermarlo. “E quindi la scialuppa era all’istmo perché ce l’avevi portata tu, mago. E la ciurma era ubriaca per la tua acquavite. Vero?”

Istintivamente cercai lo sguardo di maestro Filippo, che ora manteneva la sua immutabile compostezza. Dovevo imparare da lui. Lucidità: quelli erano i fatti, inutile negarli. Fermezza: dovevo mantenere la calma e rispondere colpo su colpo. Orgoglio: sono un mago, per quanto apprendista. Non potevo certo farmi tirare nel fango da un marinaio con manie di grandezza.

“Moliabre”, dissi con la voce più squillante che riuscii a evocare “sei un serpente che avvelena questa ciurma con le parole. Forza, accusami, sentiamo cosa hai da dire.”

Sì levò un mormorio tra i presenti, e lo stesso capitano scoppiò in una risata catarrosa. Non si aspettavano che reagissi in quel modo, e immagino che dal loro punto di vista la faccenda si fosse fatta molto interessante. In un processo vero, con una corte vera, insultare non è mai una buona mossa. Ma lì, lontanissimo da casa, fu forse la mia salvezza: vidi Moliabre esitare, anche se solo per un momento. Poi tornò alla sua solita espressione sardonica.

“Non ti accuso di niente, mago, perché l’imputato è un altro, e starà al nostro saggio giudice”, qui si voltò in maniera untuosa verso il capitano, “stabilire qual è la punizione per il colpevole e per i suoi complici.”

Poi mi congedò, tra qualche mormorio. Forse il pubblico si aspettava uno scontro più aperto, e io stesso non seppi dire se battaglia ci fosse stata davvero, o se fosse solo stata una scaramuccia foriera di futuri conflitti. Di certo me ne tornai al mio posto a fianco di maestro Filippo, e a testa alta, il cuore ancora invaso dall’emozione.

Venne infine convocato Curcumello. Il miserabile era in uno stato di profonda angoscia, che si poteva facilmente interpretare come contrizione per quanto fatto. In verità io vedevo nel suo occhio terrorizzato una dichiarazione d’innocenza, come chi si ritrova agganciato alla ruota di un carro e trascinato via verso un destino crudele senza poterci far nulla. Il labbro colpito dalla frusta del capitano era ora gonfio e tumefatto, e la casacca era lorda del suo stesso sangue. Nell’insieme Curcumello era una visione spettrale.

“Hai sentito di cosa sei accusato. E hai sentito le testimonianze.” Moliabre parlò leccandosi le labbra come un cane che pregusta la cena. “Curcumello, ammetti di essere colpevole?” Ma Curcumello tentennava. Non so quale grande confusione avesse in testa, ma l’essere lì, al centro dell’attenzione, non la stava certo dissipando. Iniziò a balbettare, e Moliabre insistette, ubriacato dal potere, e iniziò a gridare che era stato lui, che la smettesse con quella pantomima, che se era un uomo doveva avere il coraggio delle proprie azioni.

Si sentiva solo la voce di Moliabre, pareva che anche il mare stesse trattenendo il respiro per ascoltare meglio il processo. In quel silenzio sentii un ronzio familiare provenire da maestro Filippo, o meglio da una delle sue bisacce. Egli doveva avere con sé il parapneuma, e lo strumento aveva iniziato una sua vorticosa rotazione. Cercai lo sguardo del maestro, ma egli mi ignorò e, con una calma olimpica, guadagnò il centro della scena. Moliabre, infervorato dalla sua stessa tirata, si accorse del mago solo quando questi aveva già attirato l’attenzione di tutti gli altri presenti, e inciampò nelle parole, e tentò una debole protesta, subito soffocata da uno sguardo severo di maestro Filippo.

“Curcumello” disse maestro Filippo con voce profonda e sicura “cosa ricordi di ieri sera?”

Curcumello fece un passo verso maestro Filippo e sollevò le mani, ancora legate, come a cercare conforto. Poi crollò, le spalle basse e lo sguardo scuro. “Non lo so. Poco. C’ho in testa un groppo.” Scrollò il capo come per scacciare una vertigine. “Col sole, ancora ancora, signore. Ci ho come sempre un brusio nelle orecchie, un mercato, ma ci passo sopra, che sono un lavoratore onesto io, un buon marinaio, che ce lo potete chiedere a tutti qui.”

“E di notte?” incalzò maestro Filippo.

“Di notte… Ah, mi chiedete delle cose che non so dirvi, signore. Di notte dormo. Cioè, io ho sempre dormito come dormono i sassi, anche appeso al sartiame se serve, che ce lo potete chiedere a tutti. E non sogno mai, no signore, che i sogni sono l’oziare della mente, me lo diceva sempre mio papà prima che se lo mangiassero i pesci.”

“Ma da qualche giorno sogni, vero?”

“Non so se posso chiamarlo sognare, veh. Vedo delle cose, ma è tutto confuso, e tutto si disfa alla luce del sole, e penso che non sia importante o che magari è ancora la coda di quelle certe febbri che mi hanno preso con l’avvelenatura delle liane.”

“E però adesso sei sveglio, vero? E questo brusio, che mi dici di avere nelle orecchie, ora non lo senti, vero?”

“No, signore.”

“Non ricordi niente della scialuppa, e della polvere, vero?”

“No, signore.”

Questo era troppo per Moliabre, che già mal digeriva il vedersi portar via il centro della scena. “Menzogne!”, tuonò, “non posso tollerare di stare a sentire i vaneggiamenti di un reo nel mio processo!”

Maestro Filippo alzò la mano con un gesto ieratico e Moliabre si vide costretto a concedere ancora la parola. “Signor notaio” disse il mago “ti ricordi di quando sei nato? Di quando eri nel ventre di tua madre e poi ne sei uscito, come esce il fagiolo dal baccello?”

Moliabre, colto di sorpresa dalla domanda, balbettò, “Non… ma cosa c’entra? No che non mi ricordo, per forza.”

“Bene”, continuò maestro Filippo “però sono certo che sei nato, comunque. A meno che non vieni a dirmi di essere piovuto dal cielo, un dono di saggezza alla terra e agli uomini.” Filippo aveva parlato con la stessa espressione piatta e per nulla scherzosa, ma l’ironia non era così sottile da sfuggire alla ciurma. Si sentì qualche risatina soffocata, e poi Filippo continuò. “Curcumello non ha negato di aver fatto ciò di cui lo accusate. Ha detto che non se ne ricorda. Che da qualche giorno c’è una grande confusione nella sua testa. Dimmi, Curcumello, magari ti è anche capitato di svegliarti, la mattina, fuori dalla tua tenda, o in un posto diverso da dove avevi preso sonno. Vero?”

“Sì, sì! Ieri, accidenti, ieri mi è successo! Che ho aperto gli occhi stavo abbracciato a uno scoglio, bagnato come una spugna, e c’erano con me-”

“Va bene così.” Maestro Filippo si affrettò a interrompe l’esposizione. “Puoi andare.”

“Posso?” Curcumello chiese, incredulo, lo sguardo che saltava tra maestro Filippo, e Moliabre, e capitano Tirso, e tutti quanti.

“Certo. Torna al tuo posto.” Tutti trattennero il fiato, e nel silenzio che seguì percepii ancora, nettissimo, il ronzio del parapneuma.

“Bah!” Capitano Tirso decide che ne aveva abbastanza, e berciò tutto il suo disappunto. “Che me ne faccio di una mezza confessione?”

“Le prove ci sono!”, squittì Moliabre, “non ha senso perdere tempo con le chiacchiere dell’ultimo dei marinai.”

“Mago” disse ancora il capitano “ci hai capito qualcosa? Cosa consigli?”

“Qual è la pena per un atto di sabotaggio, capitano?”

Tirso si grattò la barba disordinata. “Mah, a voler fare le cose leggere, trenta frustate, via.” Il capitano era chiaramente a disagio, la sua sete di sangue ormai sopita, ed era chiaro come si fosse pentito di aver reso l’intera faccenda una questione così ufficiale. La prospettiva di una pena corporale venne accolta dalla ciurma con un mormorio di approvazione. Le frustate non erano uno scherzo, ho visto con i miei occhi le cicatrici che lasciano sul corpo dei condannati, ma significavano che tutto sarebbe tornato alla normalità. Una volta eseguita la punizione il crimine sarebbe stato dimenticato, senza grosse conseguenze.

Maestro Filippo diede segno di cercare le parole, e quando fu sicuro che tutti lo ascoltavano parlò: “Curcumello è in buona fede, ma purtroppo è pericoloso. L’aria malsana dell’isola gli ha provocato delle febbri cerebrali, e non vi è cura. Mi avete chiesto consiglio. Eccolo: a mio avviso dovrete comminare la pena capitale, per impiccagione.”

E così avvenne. Non ho cuore di aggiungere altri dettagli, mi premeva riportarvi il processo, perché contiene degli elementi importanti su cui io stesso devo forse ancora riflettere. Quel che successe dopo è presto detto: sdegno, rabbia, eccitazione. La tensione della ciurma si deviò all’improvviso su maestro Filippo e, per prossimità, su di me. Moliabre era senza parole, il processo ormai fuori dal suo controllo, e il capitano stesso fu colto di sorpresa. Credo che però, giunto a quel punto, non potesse e non volesse dimostrarsi debole. E così, dopo aver brevemente ponderato la faccenda, decise di dar seguito al consiglio ricevuto. Curcumello sarebbe stato impiccato al tramonto.

Tra tutti quelli da cui mi attendevo una reazione violenta, Curcumello reagì con estrema compostezza. Se avesse attaccato, se si fosse messo a gridare e dare battaglia forse le cose sarebbero andate diversamente. Forse addirittura ci sarebbe stato un ammutinamento, la ciurma infiammata dallo spirito di solidarietà verso il compagno avrebbe forse potuto rovesciare la gerarchia. Ma egli cadde nuovamente in quello stato di solo parziale veglia in cui l’avevamo trovato, e non ne uscì più.

Io cercai un confronto con maestro Filippo, ma tanto egli aveva parlato con eloquenza durante il processo, quanto si rivelò di nuovo burbero, e scontroso, e insomma non potei confrontarmi con lui in nessun modo. Volevo anche chiedergli spiegazioni relative al suo parapneuma, che avevo sentito ronzare e che ora taceva. Fu del tutto inutile, egli mi scacciò in malo modo.

Le ore che ci separavano dall’esecuzione trascorsero insieme lente e veloci, e laddove Curcumello non mostrava segni di angoscia, ammetto che un grande spavento si addensò nel mio cuore. Provai timidamente a chiedere un ripensamento al capitano, e addirittura approcciai Moliabre. Nessuno mi rispose, e sulla Timorazza calò una grande nube di umor nero.

L’impiccagione fu un fatto penoso, ma se ne avete vista anche solo una sapete di cosa sto parlando. Con la luce violenta del tramonto Curcumello, le mani legate dietro la schiena, fu fatto salire sul cassero, la corda appesa al pennone dell’albero di mezzana. Quando venne il momento fu lo stesso capitano Tirso a spingerlo giù dal cassero, ma il volo non fu tale da rompergli il collo. Il capitano diede l’ordine di innalzarlo, e il pover’uomo si dibatteva mentre veniva fatto salire, a forza di braccia, come una tetra decorazione che non immaginavo sarebbe mai stata appuntata alla nostra nave.

In quell’occasione mi capitò di incrociare gli sguardi di molti, e dagli sguardi sondare gli animi. Vi era, ve l’ho detto, una grande animosità sopita. Sono certo che nei prossimi giorni ci saranno conseguenze per quanto appena avvenuto. Il Capitano si rivelò tutto sommato sobrio, almeno in quel frangente, e rapidamente si ritirò nella sua stanza. Alcuni marinai preferirono tornare direttamente a riva, e passare lì la notte, lontani dal triste spettacolo. Maestro Filippo restò a lungo ad osservare il corpo appeso. Pareva che egli si aspettasse qualcosa, e notai che quando pensava di non essere osservato consultava il parapneuma nella sua bisaccia. Non so cosa attendesse di preciso, ma qualunque cosa fosse le sue speranze andarono disattese.

Infine venne il momento di dormire. Come vi dicevo in apertura, ho preferito barricarmi nella mia cuccetta. Certi sguardi dei marinai mi hanno fatto capire che la morte di Curcumello ha aperto un crepaccio: io non avrei voluto per nulla al mondo inimicarmi la ciurma, epperò non posso biasimarli. Maestro Filippo è stato spietato, e non voglio mettere in dubbio la sottigliezza dei suoi ragionamenti e la solidità della sua decisione. Ma temo che il rancore che il suo intervento ha sicuramente generato si rovescerà, per prossimità, su di me. La ciurma ha poco o niente a che fare con maestro Filippo, mentre io sono sempre tra loro. Come dire, a portata.

Comunque non ho intenzione di starmene qui rintanato. Tra poco uscirò dalla cuccetta, farò colazione e tornerò sull’isola. Se questi ultimi eventi mi hanno insegnato qualcosa è che devo prendere maggiormente l’iniziativa e non aspettare gli ordini dall’alto.

Vorrei provare a forzare un dialogo con maestro Filippo, e magari convincerlo a condividere con me l’inventario degli spiriti che ha con sé, ma non ho molte speranze. L’uovo dei serpenti non è più nel nascondiglio dentro la lanterna dove l’avevo riposto, quindi credo che egli sia almeno venuto a riprenderselo. Già un po’ mi pento di averglielo riconsegnato, ma so che è stata la cosa giusta da fare. Non resta che scoprire cos’altro il futuro ha in serbo per tutti noi.

Servo vostro,

L.

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