Lettere da Malu Malu #13: presto questi sforzi daranno frutto

GIORNO 17, sera

Luminosissimo Maestro,

torno a scrivervi oggi, quando l’inchiostro della mia ultima lettera è ancora fresco. Come vedete dall’intestazione, è la stessa giornata: ieri Curcumello è stato impiccato, e stamattina sono tornato sull’isola con la zattera. Torno a scrivervi ora perché i fatti si susseguono ad un ritmo serrato e debbo proseguire con i miei aggiornamenti, pena il rischio di tralasciare dettagli importanti.

Dopo i fatti di ieri circa un terzo della ciurma è tornata all’accampamento sull’istmo, e ho scoperto che sarebbero stati anche di più, ma il capitano Tirso ha vietato lo sbarco a un numero maggiore di marinai. Non ne ha rese note le motivazioni, ma è facile indovinarle: non vuole lasciare la Timorazza sguarnita, in caso debba levare l’ancora e ripartire. L’eventualità di un ritorno, e di un ritorno improvviso, ha gettato una grande ombra sul mio cuore. Partire ora significherebbe abbandonare l’esplorazione dell’isola, e dopo una spedizione fallita è facile immaginare che per molti anni nessuno riuscirebbe a trovare mezzi e coraggio per tentare nuovamente l’impresa.

Questo evento, e i fatti lugubri di ieri, mi hanno spinto a prendere l’iniziativa. Finora ho sempre agito seguendo gli ordini di maestro Filippo, o anche del capitano, e potrei anche continuare a farlo. Ma non sto studiando l’Arte per divenire un servo stanco. Se ci foste qui voi, luminosissimo maestro, allora sì che non avrei dubbi sulla necessità di seguire ciecamente i vostri dettami. Ma se ci foste qui voi molte cose sarebbero andate diversamente. Visto come si è comportato finora maestro Filippo, e pur rimanendo pronto a seguire ogni sua indicazione, ho deciso di rendermi più attivo.

Con questi pensieri in testa sono tornato a calcare gli scomodi sassi dell’istmo di Malu Malu. Entrando nella tenda ho avuto la sottile sensazione che qualcuno avesse rovistato tra le mie cose. Non ne ho le prove, e sebbene la mia tenda non sia disordinata come la cuccetta di maestro Filippo, è comunque una situazione da accampamento e un eventuale intruso ha buon gioco a nascondere il suo passaggio. D’altra parte non vi era poi molto che si potesse rubare. Ho anzi avuto conferma che ho fatto bene a tenere con me i miei beni più preziosi: questo libretto, che sto compilando con le lettere e gli schizzi destinati a voi; e il mio parapneuma, di cui ho fatto uso sporadico finora. Ma ieri maestro Filippo aveva con sé il suo, e sembrava molto attento a consultarlo. Anche se non mi ha rivolto parola questo indizio mi fa capire che lo strumento si rivelerà importante per disvelare il mistero dell’isola.

L’unico oggetto di interesse per un ipotetico malfattore poteva essere la mia gorgiera di cuoio, che infatti ho trovato riposta in maniera mi pare diversa da come l’avevo lasciata, come se delle mani curiose l’avessero esaminata, rivoltata, e poi scartata. Ma, come vi ho scritto, non posso esserne certo. Ad ogni buon conto ho deciso di riporre anch’essa nella mia bisaccia e portarla sempre con me da ora in poi. Senza uova spirituali è di per sé un peso inutile, ma proverei un forte dispiacere se andasse perduta.

Il colpevole, se di colpa si può parlare, doveva essere uno della decina di marinai che hanno passato la notte sull’isola, e avrei potuto forse radunarli, interrogarli, fare una scenata. Ma visto l’umore cupo e teso che permeava la ciurma ho preferito soprassedere, e anzi provare a sfruttare il piccolo vantaggio: io ora so che qualcuno è interessato alle mie cose, ma chiunque egli sia non può avere la certezza che io me ne sia accorto. Vedremo nei prossimi giorni se ci saranno sviluppi in tal senso.

Ma, come vi ho scritto, mi ero risolto di essere maggiormente attivo. Per capire la mia azione successiva debbo esplicitare un ragionamento, che sono certo abbiate già formulato anche voi. Perché Curcumello aveva agito così? Perché distruggere una scialuppa, e consumare la polvere nera, e perché farlo in una maniera così plateale? Avrebbe potuto disperdere la polvere in mare e abbandonare al largo la scialuppa, dove le correnti l’avrebbero certamente allontanata verso il mare aperto o forse addirittura fracassata contro le rocce dell’isola. In ogni caso Curcumello avrebbe ottenuto lo stesso risultato nefasto senza doversi esporre in tale maniera.

Maestro Filippo, durante il processo, ha parlato di febbri cerebrali che avessero infettato il povero marinaio, rendendolo pericoloso per sé e per tutti noi. Questa spiegazione è certamente comoda, e buona per la ciurma, e spiegherebbe perché Curcumello abbia agito in maniera così poco accorta pur nella sua volontà di arrecare danno. Ma una mente attenta come la vostra certamente avrà colto le stesse incongruenze che mi hanno fatto dubitare. Ho avuto sotto i miei occhi in passato delle vittime di febbri cerebrali e altri malanni misteriosi in grado di provocare deliri e comportamenti erratici. Ebbene, la mia esperienza mi dice che solo all’apice della malattia, e solo per brevi periodi, il malato esibisce tali stranezze, e comunque non vi può essere dubbio sul suo stato, giacché questi malanni si accompagnano sempre a grandi pallori, occhi infossati, e un aspetto quasi ferale, certamente poco incline alla ragione. Curcumello non esibiva nessuno di questi sintomi, e posso solo dedurne che, se di malattia si trattasse, deve essere una variante nuova, e perniciosa, e comunque non nota alla scienza medica per quello che l’ho studiata.

Curcumello esibiva inoltre altri sintomi, ovvero una grande sonnolenza e una sorta di instupidimento che gli annebbiava l’eloquio. Vi era poi il grande brusio che diceva avere nella testa, e di cui maestro Filippo sembrava conoscere almeno in parte la natura. Ho deciso che se non sono in grado di scoprire i segreti ultimi del malanno che l’ha attanagliato, posso comunque procedere secondo un assunto: qualcosa ha contagiato Curcumello e ne ha influenzato i comportamenti. Spero, così facendo, di aver seguito il secondo precetto dell’Arte.

Restava quindi da indagare l’atto del contagio e considerare la possibilità, fatale, che altri elementi della ciurma fossero stati contagiati a loro volta. Le mie attenzioni naturalmente si concentrarono sugli altri membri di quella prima spedizione esplorativa a cui Curcumello aveva preso parte, e da cui tornarono avvelenati dalla liane. Vi ricordo i loro nomi: Curcumello, che per primo cadde per gli effetti del veleno e che quindi possiamo considerare come il più sensibile al malanno; Palavietto e Ragno, che mostrarono segni di avvelenamento solo alcune ore dopo Curcumello; e infine Giusmo, che non mostrò mai segni di malore e che posso considerare come naturalmente immune agli effetti delle liane. La mia ipotesi è che i due eventi – l’avvelenamento e il malanno di Curcumello – siano legati. Ne ho formulate anche altre, e più ardite, ma sono ancora troppo traballanti per tediarvi con esse. Vedremo nei prossimi giorni se avrò conferma dei miei pensieri.

Formulata l’ipotesi, ho quindi deciso di non perdere tempo e provare subito a verificarla. Ricorderete che alcuni giorni fa incontrai, nella notte, Curcumello assieme ai due compagni avvelenati, Palavietto e Ragno. Il trio era appollaiato sugli scogli a guardare la risacca notturna. Io stesso quella notte faticavo a prendere sonno, quindi non diedi molto peso all’incontro, ma i nuovi eventi cambiano la mia prospettiva. È forse possibile che anche gli altri due fossero affetti, sebbene in misura minore, dallo stesso malanno che aveva portato Curcumello al patibolo?

Uscii dalla mia tenda con l’intento di parlar loro, ma quasi andai a sbattere contro il buon Mercionnio, che proprio in quel momento si stava chinando verso l’apertura per verificare se io fossi dentro.

Come ricorderete, Mercionnio è forse l’unico dei pochi marinai con cui ho stabilito un rapporto amichevole. Egli mi stava cercando epperò, trovatomi, esitava nel parlarmi, come se il messaggio che recava fosse per lui causa di vergogna.

“Mercionnio, parlami senza indugio” gli dissi “ma sappi che se mi cerchi per trascrivere un’altra lettera a tuo zio dovrai aspettare.”

“No, niente lettere signor mago, cioè signor Limonberto, cioè signor Mago Limonberto”, mi rispose, inciampando nelle parole “È che, insomma, ne abbiamo discusso e abbiamo deciso che ci dobbiamo proprio parlare, con voi.”

“Mercionnio, caro, non posso dire di aver capito. Di cosa avete discusso? E poi, tu e chi?”

“Ecco, ecco. Venite. Ci avete proprio da venire. Se ve la sentite, eh. Però, sì, insomma.”

Ve l’ho scritto, di Mercionnio mi fido. Intuendo l’importanza dell’incontro più dallo stato emotivo dell’ambasciatore che dalle sue parole decisi di seguirlo senza opporre resistenza. Mercionnio mi guidò in silenzio, che è strano per lui, sempre così pieno di aneddoti e lazzi, e durante il breve tragitto mi parve che alternativamente si guardasse in giro con aria nervosa e che mi lanciasse occhiate indagatrici. Per quanto mi riguarda io ero incuriosito. Ammetto che dalle poche parole che aveva pronunciato mi ero immaginato di essere stato convocato da chissà quale assemblea, ma Mercionnio si diresse verso una zona di scogli un po’ appartata, da cui i marinai sono soliti gettare le lenze, e dove ad attenderci c’era Franco dell’Orso, che vi ho nominato perché testimoniò al processo di Curcumello.

Egli pare essere entrato di prepotenza nel mio resoconto degli eventi, ed è quindi opportuno che ve lo descriva. Franco dell’Orso è un omone, alto una buona spanna più di me, dalla barba nerissima e dalle braccia solcate da brutti segni, forse l’eredità di antiche bruciature. Egli sedeva su un piccolo sgabello e controllava le molte lenze che pescavano appena oltre gli scogli purpurei. Senza nemmeno voltarsi, e come se fosse la cosa più naturale del mondo, Franco dell’Orso mi chiese di tenere una certa distanza, e guardare il mare, così che un osservatore non potesse capire che stava avvenendo un dialogo. Lui stesso continuò a occuparsi della pesca, e sono certo che chiunque si fosse trovato a una decina di braccia da noi non avrebbe potuto intuire nulla di quello che stava accadendo, giacché la risacca copriva le parole e aiutava la nostra segretezza.

“Abbiamo deciso di convocarvi, signor Limonberto, perché ieri ci siamo convinti” mi disse con una voce profonda ma non cruda “siete un buon uomo, e di voi ci si può fidare”. Così mi disse, e poi iniziò a spiegare. Detta brevemente, Franco dell’Orso mi rivelò che c’è una cospirazione in atto.

Ne fui stupito e, ammetto con una certa vergogna, ammirato. Pare che oltre a Franco dell’Orso e Mercionnio un certo gruppo di marinai (non mi è stato rivelato quali, e nemmeno quanti) stia parlando più o meno apertamente di un ammutinamento. A quanto ho capito l’embrione dell’idea si è andato formando durante la traversata, e forse ricorderete che nella primissima lettera già mi stupivo che i marinai non si fossero già rivoltati. Il capitano Tirso tratta male i suoi sottoposti, e con violenza, distribuendo punizioni secondo arbitrio o addirittura capriccio, facendo in continuazione sgarberie volte solo a rimarcare la sua posizione di potere. È solo naturale che nel cuore degli uomini abbia attecchito il rancore.

I cospiratori hanno deciso di mettermi a parte del loro segreto perché, pare, ho conquistato la loro fiducia. Franco dell’Orso, che parlava con il tono e la dignità di un capo, mi ha fatto capire che Mercionnio si è speso personalmente per garantire la mia presenza nel loro stretto circolo. La mia generosità nel distribuire l’acquavite e il mio insistere su un giusto processo per Curcumello hanno poi fatto definitivamente pendere la bilancia dalla mia parte. Nel riportarvi questo evento sorrido ripensando alla notte carica di angosce che passai ieri sera, a bordo della Timorazza, barricato nella mia stessa cuccetta per paura che qualcuno della ciurma si volesse rivalere su di me. 

Pare che la loro azione fosse peraltro imminente, ma i fatti dell’altra notte li hanno fermati. Curcumello, facendo saltare la polvere nera, li ha fermati, giacché essi contavano proprio su quella riserva per potersi armare. Non mi sono stati dati dettagli, ma posso intuire che essi abbiano in loro possesso una qualche arma a mano, forse uno o due archibugi, assolutamente necessari per contrastare le bocche di fuoco che il capitano Tirso a detta loro mantiene nella segretezza impenetrabile della sua cabina. Ammetto qui l’estensione della mia ignoranza: io addirittura ignoravo la presenza a bordo di armi da fuoco, oltre alle due piccole bombarde di cui già vi ho fatto cenno. È naturale che ve ne siano, e non dovrebbe stupirmi, poiché la spedizione ci porta in territori sconosciuti e il capitano deve poter mantenere saldo il suo comando, con la forza se necessario. Epperò la scoperta mi toccò i nervi, e d’improvviso mi sentii molto esposto.

Ad ogni buon conto la cospirazione è, per il momento, ferma. Essi si sono raccomandati la massima segretezza, e hanno chiesto che quando venisse il momento io facessi la mia parte. Soppesando le mie carte ho preferito mostrare solidarietà e comprensione per la loro causa, e promettere futuri aiuti. Va detto che devono per forza essere una minoranza. Se avessero dalla loro la metà abbondante o più della ciurma nulla impedirebbe la loro azione, archibugi o non archibugi. Valuterò nei prossimi giorni quale sia la via più saggia, e per il momento sarò buon custode di questo ulteriore segreto.

Liberatomi da questo inatteso incontro tornai al mio obiettivo originale, e riuscii finalmente a trovare e confrontarmi con Palavietto, uno degli esploratori avvelenati. Gli altri due – Ragno e Giusmo, perdonate se continuo a ripetervi i nomi ma non vorrei vi perdeste in questa selva di marinai – erano stati precettati per restare sulla Timorazza.

Palavietto mi parve profondamente scosso. Egli dimostrava un misto di diffidenza e timore nei miei confronti, e non fu facile cavargli le parole. In quel momento invidiai molto maestro Filippo: egli, quando non si isola come un orso nella sua tana, sa parlare con un carisma e un’eloquenza che ispirano rispetto e fiducia, e facilmente avrebbe saputo condurre il dialogo. Ma, non essendo io dotato delle sue capacità, dovetti insistere, e usare il miele, e cercare di fargli capire in ogni modo che io e lui stavamo dalla stessa parte.

Ed è vero. Forse questo mi permise infine di fare breccia: non gli mentii mai, ma anzi espressi una sincera preoccupazione. Quello che è successo a Curcumello è terribile, e per il bene di tutto sarebbe stato molto meglio se egli mi avesse messo a parte della sua condizione, se ve n’è una. Potremmo forse, e assieme, trovare delle soluzioni.

Queste parole parvero toccare una qualche corda nascosta nel marinaio, e trasparve quella che interpretai come una sincera preoccupazione. Anche di più: egli mi parve in preda ad angosce e paure. Non volle dirmi nulla, in quel momento, ma sento di aver stabilito un contatto, e che presto questi sforzi daranno frutto. L’unico pensiero a cui egli diede voce non lo riguardava direttamente: egli espresse preoccupazione per Ragno, a bordo della Timorazza, come se il suo compagno rischiasse chissà quale pericolo mentre era sulla caravella. Egli si affrettò a giustificare le sue preoccupazioni parlando della crudeltà del capitano Tirso, con parole molto simili a quelle che avevo sentito pronunciare un’ora prima da Franco dell’Orso, ma la mia impressione fu che quando parlava dei rischi che correva Ragno egli si riferisse ad altro.

Durante questo nostro dialogo avevo tenuto con me, nascosto nella bisaccia, il parapneuma. Lo strumento non emise un singolo suono. Ve lo scrivo anche per fissare sulla carta i miei stessi pensieri. Se i miei sospetti sono fondati e Palavietto, come Curcumello, sta subendo un qualche tipo di influenza, posso ora affermare che il fenomeno non ha a che fare con gli spiriti.

Non mi resta che salutarvi e cercare di prender sonno. Desidererei poter chiosare con un augurio sereno dove auspico di poter passare molti giorni senza scrivervi, e poi doverlo fare solo per riportare successi e portenti gioiosi. Schiettezza mi impone però di fermarmi qui, al semplice desiderio.

Come sempre, servo vostro,

L.

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