Il custode dell’eremita #2: i preparativi

L’eremita nudo. Dunque. Come prima cosa, nessuno sa come si chiama. La gente lo chiama in tanti modi, e tanti sono un po’ offensivi. Culo d’ortica, pisello spinato, marito dei rospi, bacia-

Sì, scusate eccellenza. Volevo farvi capire, ma vedo che avete già capito. Comunque. La gente lo insulta, e devo dire che anch’io, prima di diventare il suo custode, ho fatto come tutti, con gli altri ragazzi si faceva a gara a inventare gli insulti più divertenti. In paese si dicevano tante cose sull’eremita nudo, che si accoppiasse con gli animali, e anche con le piante, che potesse comandare il fulmine e volare sul vento.

Mi rincresce ma no, non so dirvi la fonte di queste voci. Si dice. Lo dicono tutti, specie i ragazzi e le comari, ma non lo so da dove venivano queste voci. Però qualcuno deve per forza metterle in giro, perché ogni tanto arrivava il racconto di qualche nuovo portento, di un qualche miracolo-

No, scusate. Non dirò più miracolo. Di un fatto. Ogni tanto arrivavano racconti di nuovi fatti, in paese. E quindi qualcuno per forza doveva averli sentiti, perché altrimenti vuol dire che la gente se li è inventati, che sono bugie belle e buone, e però così tante bugie? Non saprei, giudicherete voi.

Io prima del mio incarico non l’avevo mai visto, l’eremita nudo. Un paio di volte con altri ragazzi eravamo andati a cercarlo, per far passare un po’ il tempo e anche per far vedere che non avevamo paura. È una specie di prova di coraggio, vedete. Bisogna fare quasi una giornata di cammino, col tempo buono, ed è tutto sentiero e boschi e insomma, non è facile arrivarci e trovarlo, se non sai la strada. Alla fine ci siamo sempre perduti e non l’abbiamo mai trovato.

E poi, un anno e mezzo fa, il vescovo mi ha nominato custode dell’eremita nudo. Io cerco di andare con ordine, dal principio come mi avete chiesto voi, e quindi devo spiegarvi che l’incarico mi è stato assegnato, sì, ma non mi è stato spiegato. Cioè, io lo so cosa fa un custode, tiene la casa del suo signore e ripara il tetto quando serve e non fa andare in malora i campi e le strade e le stalle e fa quel che c’è da fare. Ma il custode di un eremita, che fa? Ho chiesto, ho chiesto, e mi hanno detto di tenerlo d’occhio e non fargli fare delle cose improprie.

No, eccellenza. Non mi hanno spiegato cosa fossero le cose improprie. Forse pensavano che lo sapessi. All’epoca ero chierico, dovevo essere un uomo dotto, almeno un po’.

Si è posto il problema del mangiare. Non sapevamo esattamente cosa mangiava l’eremita – si diceva bacche, radici, code di rospo. Qualcuno diceva che mangiava le pigne degli alberi, qualcun altro diceva le carrube, come i maiali. E qualcuno diceva che non mangiava proprio niente, che viveva d’acqua di sorgente, come una ninfa. Però io non potevo mangiare le pigne, e ho pianto e gridato finché non ho ottenuto che almeno mi portassero, ogni qualche settimana, il mangiare.

Poi c’era l’altro problema, quello della messa. Almeno una volta la settimana mi dovevo comunicare, come è dovere di ogni buon cristiano. E però non si trovò nessuno disposto a farsi la strada per me. Padre Moffati, buon uomo, non poteva certo caricarsi quell’incombenza, specie d’inverno, con la fanga e la pioggia, e disse al vescovo Mistragni che la punizione era per me, non per lui. Gli disse proprio così, e il vescovo doveva aver trovato proprio divertente il suo sbotto, che alla fine decise di fare una cosa che non ci aspettavamo: mi ordinò prete.

Vedo che disapprovate. Non so che dirvi, eccellenza. Io stesso restai a bocca aperta. Padre Moffati, che era lì con me all’annuncio, quasi sveniva, è diventato rosso come un cardinale, parlandone con rispetto. E il vescovo rideva, rideva, che non l’ho mai visto così allegro. Fatto sta che in fretta e furia mi hanno ordinato prima diacono, poi prete. A questo punto il problema della messa era risolto, potevo dirmela da solo, che era in effetti molto comodo. Il vescovo ha promesso che avrebbe provveduto a farmi avere un messale con le letture, prima o poi, e che per il momento scusassi con quel che avevo, qualche libercolo a tema sacro di proprietà della parrocchia. Padre Moffati, quando ha capito che aria tirava è diventato di tutti i colori: prima rosso, ve l’ho già detto, quando si è arrabbiato, poi bianco, quando ha capito che il vescovo faceva sul serio, poi verde verde come un ramarro, perché se diventavo prete pure io dovevamo condividere le cose, i libri, i fondi della parrocchia, e non era mica contento.

Una settimana dopo partivo per la mia missione. Avevo quattordici anni e mezzo. Per l’andata, per il trasferimento, diciamo, mi hanno accompagnato un paio di servi del vescovo con un carretto a mano. C’erano poche cose, mia madre aveva recuperato in fretta qualche vestito ma non avevo l’abito talare. Anche durante l’ordinazione me ne avevano prestato uno, che però ho dovuto restituire. Avevo qualche libro e un po’ di cibo, quello sì. Salami, qualche fiasco di vino, barili di farina, formaggio e pane nero, di quello che dura, zucche e pesce seccato, verdure e altre cose. Pochi dolci, e questo era un peccato. Mio padre non mi venne a salutare ma mi fece avere un piccolo baule fasciato di ferro. C’era dentro una pistola, un sacco da quaranta palle, e due fiaschette di polvere nera. Era un regalo importante, mi ha fatto sentire fiero del nome che porto. Sono un Lorpio, e lo sarò per sempre. Ho richiuso il bauletto promettendomi di non aprirlo se non fosse stato proprio necessario, come poi in effetti è stato.

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