Il custode dell’eremita #3: l’arrivo

L’arrivo all’eremo fu una faticaccia. Eravamo in tre, io e i due servi del vescovo Mistragni, col carretto. Aveva piovuto fino alla settimana prima e c’era ancora tanta fanga in giro, e nella fanga si vedevano tante tracce, del piede del cinghiale e del daino, e poi altre come di cane, ma ben grandi.

Sì, eccellenza, erano lupi. Non volevo rovinarvi la sorpresa, che per me appunto è stata una sorpresa, che non avevo capito. Ma sì, lupi. Ce ne sono nelle nostre valli, ma ce ne sono un po’ dappertutto nel mondo secondo me. L’avete mai visto, voi, il lupo, quando vi guarda da sotto in su, col muso basso e il respiro che fa la nuvola? Con i suoi occhi che –

Sì, eccellenza, scusate. Proseguo. Partimmo all’alba e arrivammo all’eremo che doveva essere mezzodì, ma non si può sapere di preciso, che il posto è così in mezzo alle valli che non si sente il campanile battere le ore. Però me lo ricordo bene: il cielo era bianchissimo, e sembrava ancora inverno, ma stava già mettendo al caldo, per fortuna.

Per l’eremo non c’è una vera strada, che è per questo che con gli altri ragazzi non l’avevamo mai trovato. Siamo arrivati fino ad un bivio, che la strada si divide: quella grossa, con i segni di carri e cavalli, va verso il basso, e un’altra, picciola, si inerpica. E io pensavo di dover prendere quella, e ho fatto proprio per prendere quella, che la strada grande porta a San Boffazio, lo so. Ma uno dei servi – che ci aveva un gran naso, me lo ricordo – uno dei servi mi fa: «Oi, Raffaele, dove vai, testone!»
E l’altro gli dà di gomito, ridendo: «Ma non lo sai, che è diventato prete, e ci devi portare rispetto?» E il primo, quello del nasone: «Hai ragione, veh. Venite, padre Raffaele, venite da questa parte!»
E intanto si scassano dal ridere, e mentre uno scarica il carretto l’altro comincia a inoltrarsi negli sterpi. Che vedete, per l’eremo non c’è una strada vera e propria. Si arriva fino al bivio che vi dicevo, e poi si va a piedi, verso monte, per una strada segreta che se non la sai non la trovi.

Siamo andati avanti a bastonare il bosco e mangiare ragnatele per un bel po’, e a ogni passo mi sentivo il cuore più pesante: voi eccellenza lo sapete, ormai l’avete capito, non sono un avventuriero. E a ogni rovo che mi graffiava, a ogni tronco che dovevo scavalcare, mi chiedevo in che razza di guaio mi fossi cacciato, e come avrei fatto, io che-

Sì, stringo, scusate. Avete ragione, il racconto è ancora lungo, ma secondo me è importante dirvelo, che io non ero felice, ed ero pentito, e ho cercato di fare tutto quello che mi è stato ordinato come un buon cristiano.
Comunque, arriviamo all’eremo. Cioè, arriviamo al rudere. Non voglio essere irrispettoso, e magari una volta, tanto tempo fa, era anche un bel posto. Credo fosse qualcosa di militare, una piccola torre circolare, di pietre scure, in cima ad una riva. Ma era tutto crollato, i piani sopra erano franati da un lato. C’erano i muri, e una porta, e il pavimento del secondo piano, che poi era anche il tetto del primo, pieno di detriti e legni spaccati. Arriviamo, e ce l’ho ancora davanti agli occhi: la torre mezza crollata contro il cielo bianchissimo, e c’è un alito di vento che corre per il bosco e fa parlare i rami, e non si sente altro e non si vede anima viva, solo boschi e boschi e montagna, dappertutto.

Devo essere sbiancato, perché il servo nasone mi ha guardato e ha smesso di prendermi in giro e mi ha detto anche «Dai», per tirarmi su. Lui e l’altro han fatto qualche viaggio, ancora, che han scaricato tutto, e poi è venuto il momento di andare, che dovevano tornare in paese.
«Ma l’eremita dov’è?» ci ho chiesto, mentre quelli si stavano già allontanando.
«Cercatelo!» mi ha detto uno dei due, senza voltarsi. Un momento dopo ero solo.

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