Da Marcello

[Ringrazio DottorNomade per i soliti buoni consigli]

Piero Malabutti si considera, grossomodo, un tipo a posto. Ha i suoi difetti, certo, dopo il terzo o il quarto bicchiere può anche dirtelo lui stesso che non è uno stinco di santo, per carità, e magari a malincuore ammette pure di aver fatto danni, pestato innocenti, rubato automobili, menato le mani per vincere discussioni e partite a carte. Ma resta, tutto sommato e in fondo al cuore, un buon uomo. Un bravo ragazzo, anche. Così si sente, Piero.

E poi sono tempi difficili, lo sappiamo. Tempi di gente disperata, una nazione di lupi e di pecore governata da lupi e da pecore. Bisogna arrangiarsi, e date le alternative Piero pensa che sia molto meglio ululare che belare. E infatti ecco il compito di oggi: ululare. Spaventare. Non mordere, eh, che ci sarà tempo per quello, se proprio. C’è questo nuovo ristorante, “da Marcello”. È un posto un po’ strano ma il capo è stato chiaro: l’hanno aperto nella nostra zona, devono seguire la nostra regola. È una regola semplice: ci prendiamo il dieci percento degli incassi, tutte le settimane. Solito trattamento, solite velate minacce. Ululare. Ma è meglio così, eh. Nella nostra zona non vola una mosca, la gente in strada si sente sicura. Il capo è un grande ombrello che ripara dalla pioggia e dalle avversità. Dovreste vedere le altre, di zone. Quelle senza un ombrello sono un disastro, posti da aver paura a camminare per strada, con le facce che si vedono in giro. E poi non è cattivo, il capo. Basta fare tutto quello che dice e non farlo arrabbiare. Anche Piero non è cattivo. È lavoro.

Ristorante trattoria “da Marcello”, nuovo fiammante ma già ben avviato, cucina raffinata e prezzi contenuti. Apre solo per cena e fa orari un po’ strani, ma c’è sempre pieno. Tutto il locale è un po’ strano a dire la verità, girano voci confuse, ma Piero sa bene che non bisogna dare retta, alle voci. Anche su di lui girano voci, per dire, lui lo sa e ci marcia. Gli fa gioco, gli gonfia la reputazione. È primavera, le giornate sono lunghe, una sera vale l’altra. Piero arriva al locale, squadra appena il posto, non gli interessa davvero. Entra, spavaldo.

Vecchi, c’è pieno di vecchi. La sala è rettangolare, con grandi vasi di piante che separano i tavolini, le pareti imbiancate di recente e già graffiate dagli schienali delle sedie, un grande lampadario di cristallo e un angolo bar deserto e scintillante. C’è anche un minuscolo palchetto con un pianoforte e un pianista, giacca nera e barbetta, che suona discreto. Anche allegro, via. Ai tavoli, appunto, vecchi. Vecchi da soli, che masticano piano, qualcuno sospira, uno anche piange succhiandosi la dentiera. Più di rado vecchi in coppia, che parlottano e ridono, lei sommessa, lui sguaiato. Nessun gruppo numeroso. Al massimo tre persone, tutte con un sorriso amaro.

«Benvenuto, la accompagno al suo tavolo»
Piero è preso di sorpresa e prima di capire bene cosa succede la gentile cameriera già lo sta facendo sedere. Molto elegante, la gentile cameriera, vita sottile, capelli corti e raccolti, un sorriso quieto. Non il genere di donna che piace a Piero, eh, lui è più per i polpaccioni e la risata forte, però è molto bellina, la gentile cameriera. Ha un’aria da fine secolo, d’altri tempi.

Piero si scuote. Non deve farsi distrarre, ed è già irritato per aver perso l’iniziativa: lui è qui per ululare, non per farsi condurre come un bambino. Ma non vuole neanche fare una scenata, se non serve. E i vecchi lo mettono un po’ in soggezione, a dirla tutta. Si siede, guarda negli occhi la cameriera: è una signora che ha passato i quaranta, e ha le movenze quiete di chi sa esattamente cosa fare. Gli ricorda fatalmente la madre, e fatalmente deve pensare ad altro.

«Bel ristorante che avete qui.» Con indifferenza apre il bottone della giacca. Sotto c’è la pistola. Ululare. «Vedo che gli affari vanno bene.»
La donna risponde con un sorriso tirato. «Non possiamo lamentarci, è vero.» Bene, torniamo sul binario giusto, pensa Piero. Spaventati. «Ma sa, Marcello ha pianificato molto, prima di aprirlo: la posizione, il servizio, il menu. Sembra tutto naturale, ma ogni cosa qui è studiata, ha una sua funzione. Posso portarle un antipasto, intanto?»
«Non sono qui per mangiare, l’hai capito, sì?»
«S-sì, certo. Le porto comunque qualcosa, nell’attesa, signor Malabutti.»

L’attesa. La detesta, l’attesa. Piero ha ora davanti a sé uno di quei coperchi a cupola, d’argento. La cameriera – come si chiamava, più? Bianca, Azzurra, Celeste, un nome così, di colore. Il capo gli aveva detto tutto, nomi, cognomi e personale effettivo, che fa sempre le cose bene, il capo, ma Piero se li era dimenticati e non voleva chiederli di nuovo e fare la figura del fesso. Comunque, la cameriera gli ha portato questo piatto, coperto, e ha detto che il proprietario doveva finire in cucina e che lo avrebbero ricevuto a breve. Sembrava spaventata. Bene. E poi sapeva il suo nome senza che lui glielo dicesse. Le voci corrono. Meglio così, le cose andranno lisce.

Intanto Piero si guarda attorno. Son davvero tutti vecchi, è incredibile. E non sembrano neanche fare delle grandi mangiate. Qualcuno ha preso del purè, una fettina ai ferri, roba da vecchi. E però il piatto forte, quello che cambia la serata, è quello sotto il coperchio. Arrivano ai tavoli dei piatti uguali a quello che ha lui, coperti dallo stesso coperchio a cupola. Quando arriva sugli altri tavoli i vecchi si fanno concentrati, le conversazioni si interrompono, tutti guardano intenti. Scoperchiano, e sotto di solito ci stanno dentro dei dolci. Cose piccole, biscottini, caramelle, pasticcini. Piero si guarda attorno e il copione si ripete. Nel tavolo a fianco a lui, ad esempio. Coppia di vecchi innamorati, di quelli che non si capisce dove finiscono le rughe di lei e dove inizia l’artrosi di lui. Parlano poco e si tengono per mano. Uno spettacolo un po’ stucchevole a dirla tutta. Buon per loro, eh, per carità. Ma Piero proprio no. Lui è un brav’uomo, ma così no, non ci si vede. E poi a lui piacciono le ragazze giovani.

Comunque, arriva il piatto e loro scoperchiano, avidi. Sotto ci sta una piccola ciotola piena di confetti bianchi. Li guardano e già ridacchiano, ne prendono uno lui e uno lei e se li infilano nelle bocche sdentate. Succhiano e si guardano negli occhi, una roba oscena, e non sembra finita lì, lui le dice qualcosa sottovoce, lei sorride e, cazzo, arrossisce come una quindicenne. Fanno per baciarsi. Piero non ce la fa più e guarda da un’altra parte, imbarazzato.

Nel tavolo davanti a lui siede un uomo, dignitoso, uno di quelli che si dirà: fino all’ultimo giorno si è annodato da solo la cravatta. Anche lui scoperchia, trova un pasticcino di pasta sfoglia. Non sembra sorpreso. Solleva il dolcetto, lo tiene bene tra le dita, lo guarda con attenzione, lo annusa chiudendo gli occhi. Poi lo morde, piano. Un solo piccolo morso, lascia il resto sul piatto, si appoggia allo schienale, guarda il soffitto. Gli lacrimano gli occhi, sbatte le palpebre. Sospira.

Piero guarda il coperchio davanti a lui. Il suo faccione, deformato dalla cupola, lo guarda di rimando. Va bene, pensa Piero, ammettiamolo pure: sono curioso. Aspettare non è mai stato il suo forte, e nella sua posizione Piero non dovrebbe stare al gioco. Dovrebbe essere lui a dare le carte, decidere chi fa cosa. Ma questa è la prima visita. Come una cortesia. E se le cose vanno bene, nella zona, se tutti sono contenti, non c’è bisogno di essere ostili. E poi è curioso. Vediamo. Solleva il coperchio.

Nel piatto c’è una rotella di liquirizia. È una caramella confezionata, una lunga spirale nera e arrotolata stretta, e al centro della spirale c’è come una piccola S. Piero, perplesso, sopracciglia sollevate e tutto quanto, prende la caramella in mano, con entrambe le mani, e poi fa qualcosa senza decidere di farlo, come un automatismo, come un sogno. Inizia a srotolare la spirale, con attenzione, e se la arrotola intorno al pollice sinistro. Lo faceva sempre, da ragazzino. Non mangiava mai la spirale intera, a morsi, come fanno certi barbari. E non la mangiava neanche srotolata, come uno spaghetto, che gli sembrava una roba da femmine. No. Se la avvolgeva attorno al pollice e poi la mordeva, fino a quando non andava in pezzi, fino a ottenere tante mini liquirizie, e poi si buttava in bocca pure quelle, tutte assieme. Lo faceva anche per farsela durare, la liquirizia. Adesso può permettersi di andare di fretta ma una volta no, faceva le cose piano, l’ha fatto tante volte, lo fa ancora adesso mentre nel ristorante trattoria “da Marcello”, cucina raffinata e prezzi contenuti, un pensiero lo colpisce come una badilata: come passa il tempo.

È un pensiero banale e lui si vergogna anche un po’ di farlo, eppure è lì: la percezione fisica e chiarissima del tempo che passa. Piero si è sempre divertito molto, anche da bambino, anche da ragazzino, e ha sempre saputo annusare l’aria e stare nel posto giusto, nel gruppo giusto. Le liquirizie ce le aveva in tasca e le mangiava in quel modo suo anche quella volta che seguiva Domenico, lui in bici e quell’altro con la Vespa, e andavano a fare la prima consegna vera, per i grandi, la prima roba e i primi soldi, e Domenico che gli diceva fiero che un giorno avrebbe comandato una zona tutta sua e Piero che lo ammirava e anche però pensava: io no. Meglio di no. Meglio seguire, ci stanno meno rischi.

Piero sorride e scuote il capo, finisce la liquirizia, rimette il coperchio al suo posto, il pianista termina su una coda di note leggere. Domenico poi è finito male, è roba vecchia. È anche roba da vecchi perdersi nei ricordi, nella nostalgia. Piero ha ancora tante cose da fare, e si è stufato di aspettare. Si alza, intercetta gli occhi della cameriera e senza chiedere il permesso entra nelle cucine. Il pianista attacca un’altra canzone, con brio.

Lo accoglie una vampata di vapore. La cucina è grande – forse fin troppo per il ristorante – e tutta d’alluminio lucido. Al centro c’è una grande isola con i fornelli e la cappa, alle pareti ci sono i piani di lavoro, i lavandini, i forni. Quattro persone lavorano veloci, tagliano, lavano, rimestano. Fa molto caldo e l’aria è invasa dagli odori mescolati di tutti i cibi. In un angolo, appollaiato su uno sgabello, siede un omino dimesso, abito elegante, capelli neri impomatati e lucidissimi, baffi curati, occhi un po’ sporgenti. I cuochi lavorano in autonomia quasi completa, ma quando devono preparare un piatto speciale, qualcosa che finirà sotto un coperchio a cupola, allora vanno da lui, da Marcello, si consultano, chiedono indicazioni, mostrano il prodotto finito. L’uomo svolge questo lavoro con grande cura ma anche facendo trasparire una certa noia. Quando Piero entra nella cucina gli fa subito un cenno d’assenso, getta appena uno sguardo a dei dolcetti a conchiglia che gli vengono sottoposti, e poi si avvia verso una porticina. Piero lo segue.

Sono fuori, in un cortiletto. I rumori della cucina arrivano attutiti, così come le note del pianoforte. Marcello dà le spalle a Piero, infila i pollici nelle piccole tasche del panciotto. Davanti ai due il cielo trascolora, la lunga giornata primaverile va a chiudersi.
«Ho orrore dei tramonti» Marcello parla con voce quieta e stanca «sono così romantici, così melodrammatici.»
Piero si gratta la testa. Non sa, francamente, cosa pensare. Avverte anche un lieve capogiro. Alle sue spalle la cameriera, fidatissima, sta sulla soglia della cucina e osserva i due uomini, in silenzio.
«Non facciamola lunga» Piero cerca di arrabbiarsi. Cerca, nella sua stessa rabbia, forza, decisione, controllo. Non trova niente, non trova neanche la rabbia. Spinge lo stesso, di nervi. «Sai perché sono qui. L’ho capito che avete capito.»
Marcello si volta, lo guarda fisso con gli occhi un po’ troppo sporgenti, un po’ troppo spiritati. «Quante gioie possibili si sacrificano così all’impazienza di un piacere immediato.» A Piero gira il capo, si appoggia ad una finestra, fa cadere un vaso di fiori. Si spaventa, traffica con la giacca, cerca di tirare fuori la pistola. «Cos’è questa pantomima? Cos’è questo posto?» Barcolla. La vista gli va fuori fuoco, sventola la pistola come una ramazza. L’altro gli si avvicina, una figura sfumata che parla piano. «La saggezza non si riceve, bisogna scoprirla da sé dopo un percorso che nessuno può fare per noi, né può risparmiarci, perché è un modo di vedere le cose.» Piero è nel panico, gli fanno male le vene, lo stomaco è in fiamme. Alla cieca riesce a togliere la sicura, fa partire dei colpi. Non vede niente, non sente niente, neanche gli scoppi dei proiettili, solo la sensazione del rinculo sul polso, forte. Sente solo una voce, chiara, precisa.
«Troviamo di tutto nella nostra memoria: è una specie di farmacia, di laboratorio chimico, dove si mettono le mani a caso, ora su una droga calmante, ora su un veleno pericoloso.»
Poi Piero crolla e non sente più niente.

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