Robert L. Stevenson – L’isola del tesoro

Il pirata senza una gamba e con il pappagallo sulla spalla, i dobloni d’oro, l’isola tropicale, la mappa con la X in rosso, l’ammutinamento, i colpi di cannone, il coltello tra i denti: parte tutto da qui. L’isola del tesoro ha definito il genere “storie di pirati”, Stevenson ha iniziato e tutti gli altri gli sono andati dietro. ARRRRR!

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È un libro d’avventure, tutto trama e colpi di scena. È un libro per ragazzi, con il protagonista grande abbastanza da avere agenzia ma piccolo abbastanza da non poter affrontare gli adulti di petto. Ed è un libro “per maschi”: l’unico personaggio femminile è la madre del protagonista, ma si vede in mezza scena all’inizio e poi sparisce. I problemi si risolvono con inventiva, con onore e con spirito d’avventura, quasi mai parlando. Fu pubblicato a puntate tra il 1881 e il 1882, come testimoniano la struttura a capitoletti e le roboanti illustrazioni, tipo questa:

Un giovane Kurt Cobain riceve ispirazione per un pezzo

È anche un libro molto onesto, senza sottotrame e intrecci complicati. In un paio di capitoletti centrali il punto di vista della narrazione cambia, non è più quello del ragazzo ma è quello del dottore. E veniamo avvisati nel titolo: narrazione condotta dal dottore. Poi si torna al ragazzo e ce lo dicono: narrazione ripresa dal ragazzo. Chiarissimo.

Due cose ho trovato interessanti: l’antieroe e il linguaggio. Long John Silver è il pirata “cattivo”. Uso le virgolette perché, nonostante sia motore di ammutinamenti, morti e malefatte varie, Silver non è una bestia sanguinaria. A ben guardare è un povero stronzo, ormai avanti con l’età, che vuole mettere le mani sul tesoro – esattamente come tutti gli altri, protagonisti compresi. E vuole il tesoro per ritirarsi, comprarsi una casetta, fare la vita del pensionato. Non si può davvero volergliene. Poi, vabbé, per raggiungere i suoi scopi usa la manodopera che ha, ovvero un manipolo di alcolizzati sempre pronti a menare le mani, questi sì macchiette un po’ bidimensionali. Silver è quindi un antieroe: è il nemico dei protagonisti, certo, ma ha i suoi scopi e un suo cervello.

L’altra cosa interessante è il linguaggio usato. Ho letto in inglese, e meno male che stavo sul kindle (che ha il dizionario incorporato) perché è un florilegio di termini marinareschi che avrei fatto fatica a seguire anche in italiano. Ma a parte i tecnicismi Stevenson usa un linguaggio potente, un po’ enfatico, certamente d’atmosfera.

Mutiny, it was plain, hung over us like a thundercloud.

… e sono cazzi per tuttiMutiny, it was plain, hung over us like a thundercloud…. e sono cazzi per tutti

So che è un po’ melenso da dire, ma questo è un libro che leggerei a mio figlio (o figlia) la sera, un capitoletto per volta prima di dormire. Giusto per prendere un po’ di respiro dalle complicatezze del mondo.

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