Il custode dell’eremita #8: l’ospite

Cosa dovevo fare, vostra eccellenza? Ditemi voi, perché io mi ricordo ben bene che non lo sapevo. Donna Donata se n’era andata dicendomi le stesse esatte parole che mi aveva detto il servo nasone del vescovo Mistragni: “cercatelo”. Ma davvero si aspettava che mi mettessi a battere i boschi, a rovesciare le radici e frugare nei formicai? Che non sapevo dove stava l’eremita, non sapevo neanche che faccia aveva.

E qui mi è venuto in mente padre Moffati. Ve l’ho detto che è un brav’uomo, e che mi ha voluto insegnare tante cose anche se io sono una capra, che se la sua sapienza era un sacco di grano, di quelli grossi che a portarli di piegano la schiena, io ho tenuto per me forse un seme, o la decima parte di un seme. E però qualcosa mi è rimasto, e qualcosa l’ho imparato: mi ricordo che padre Moffati mi diceva sempre che lo spirito santo è dentro tutti noi, e che quando sono in dubbio devo chiudere gli occhi e ascoltare la vocina dentro il mio cuore. E così ho fatto.

Mi sentivo un po’ scemo, a dirla tutta, però cosa dovevo fare? Capite anche voi. Donna Donata si era allontanata, io ero di nuovo solo e la mattinata stava procedendo. Sono uscito dalla torre, che l’aria si era fatta pesante, e davanti al bosco silenzioso ho chiuso gli occhi e ho provato ad ascoltare la vocina. La giornata era limpida, e si sentiva che l’inverno stava finalmente cedendo il passo. Delle piogge dei giorni scorsi non c’era più traccia, e anche il poco di vento che mi toccava lo faceva con dolcezza. Io tenevo gli occhi chiusi e sentivo tutto questo, sentivo un pochetto di sole addosso che mi intiepidiva e la paura provata nella notte e quella della mattina che finalmente si scioglievano. C’era una grande pace, e nella pace ho capito una cosa importante, una cosa che avevo ignorato ma che avrei dovuto tenere in gran conto: avevo fame.

Lo so, lo vedo, vostra eccellenza è deluso. Vorrei poterle dire che avevo capito qualcosa di profondo e di spirituale, ma la verità è questa: ora che tutto si era calmato la vocina dentro di me mi diceva solo che dovevo mangiare qualcosa, che non avrei potuto risolvere nulla con la pancia vuota. E se davvero avessi dovuto avventurarmi nel bosco alla ricerca dell’eremita, tanto valeva farlo dopo colazione. Ma state attento, perché forse davvero a parlare era stato qualcuno di più in alto di me. Non dico il Signore, che non sono abbastanza importante e sicuramente lui avrà altre situazioni ben più gravi da gestire. Ma magari è stato il mio angelo custode a dirmi di cucinare qualcosa? Non si può sapere. Che poi è venuto fuori che era una cosa importante, una cosa da fare, e adesso vi spiego il perché.

Fatto sta che prendo questa decisione e mi metto a cucinare. Come prima cosa decido di fare un bel fuoco, e decido di farlo fuori dalla torre, che a essere sincero non ne potevo più di stare al chiuso in quel posto maleodorante. Un po’ di legna l’avevo raccolta la sera prima, e adesso con la luce ne raccolgo ancora dell’altra, che il bosco è sempre generoso. Quella mattina comunque già rimpiangevo di non avere un’accetta con me, che continuavo a trovare rami caduti, ma pezzi troppo grossi per portarmeli via. Comunque ammonticchio una bella catasta e faccio fuoco, e lì capisco quanto sono davvero impreparato. Non ho una pentola, una padella, niente per cucinare, che non me lo aspettavo di trovare questa desolazione: era come stare nel deserto, mancava tutto. Ma non mi faccio scoraggiare mica, non sono uno di quelli che si piangono addosso. E poi non avevo ancora deciso bene bene se me ne sarei tornato in casa o se avrei provato a rimanere. Quindi rientro nella torre e guardo un po’ la situazione, ora che c’era luce.

L’assalto, nella notte, aveva lasciato un gran disordine, e la bestia – che era l’eremita, ma io non lo sapevo ancora – aveva rosicchiato un po’ di tutto, il pane, un pesce secco, le uova sembrava che se le fosse cacciate in bocca così, con guscio e tutto, come un serpente. In questo pandemonio capisco che la cosa migliore è salvare quel che è finito in giro prima che vada davvero sprecato. Se avessi avuto una pentola avrei fatto una zuppa, di quei gran miscugli che mi piacciono a me, buttando dentro carne e pesce, verdure e pane. Ma ahimè l’unica cosa che poteva andare sul fuoco era una piccola ciotola di terracotta, piena di quel buon burro alle erbe che prepara mia madre. La svuoto come posso e metto la grande parte del burro in un panno pulito, e poi la butto sul fuoco. Quando la ciotola è calda ci butto dentro – assieme al burro che c’era rimasto e che già sfrigolava – un po’ di carne secca e un po’ di vino.

Dopo un momento avevo le lacrime agli occhi. L’odore del cibo, della carne che friggeva e del vino che sfumava hanno iniziato a spandersi tutto attorno e mi hanno fatto sentire tagliato come un maiale al macello: un po’ di me era ancora a casa, ho chiuso gli occhi e mi sono immaginato di essere al tavolo della cucina, sentivo mia madre cantare e la serva tagliare le carote sull’asse. E però ero anche lì, dalla torre, e ho pensato che magari potevo cavarmela, che se riuscivo a portare almeno un po’ di casa mia con me magari le cose non sarebbero state tanto terribili, e che in fondo non ero uno sprovveduto e il Signore mi avrebbe aiutato.

Poi ho aperto gli occhi e davanti a me c’era un lupo.

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