Il custode dell’eremita #12: aceto

Epperò, santo o non santo, angeli o non angeli, ho capito che dovevo iniziare a darmi da fare a risolvere le questioni, almeno quelle pratiche. L’eremita si era calmato, ve l’ho detto, e dopo un po’ si deve essere stufato di sbattere le ali in terra, o forse l’odore della mia cucina l’ha attirato come aveva attirato il lupo. Fatto sta che si è tirato in piedi ed è venuto a sedere proprio di fianco a me, io su un sasso, lui sull’altro. Mi guardava, e guardava il mangiare, e sorrideva e borbottava delle cose sottovoce, non so se era una lingua sua o proprio degli sproloqui, fatto sta che non si capiva niente. Io però in quel momento non ho pensato agli angeli e alle visioni, che sono cose più grandi di me. Ho pensato che questo pover’uomo doveva avere fame, a giudicare dalla sua magrezza, e che se mi lasciava fare magari potevo dare una sistemata alle sue ferite, già che c’ero, che ancora sanguinava.

Gli ho da mangiare, che avevo tenuto da parte metà della mia colazione, e pensavo che avrebbe divorato tutto in un boccone. Invece l’eremita ha preso la ciotola con entrambe le mani e se l’è portata davanti alla faccia e ha cominciato ad annusarla, certi respironi profondi, con gli occhi chiusi, e ha iniziato a sorridere, quieto e felice. Si vedeva che era proprio contento, infatti poi ha aperto gli occhi e mi ha guardato con una gratitudine che mi ha aperto il cuore, che ero anche un po’ imbarazzato.

“Su, mangiate”, gli ho detto. Me lo ricordo perché era la prima volta che gli parlavo, le mie prime parole. Ho fatto anche il gesto di portare qualcosa alla bocca, che forse non mi capiva come io non capivo lui. Lui però ha fatto un po’ sì con la testa e ha preso un pezzetto di carne dalla ciotola. Mi ha fatto un po’ impressione perché aveva le mani sporche, le unghie nere di terra e spaccate, e frugare così nel mangiare non va mica bene. E lì mi è venuta in mente mia mamma, che vuole sempre che mi lavo prima di cenare, e ci siam fatti delle gran litigate. Adesso mi manca, mia mamma. Mi è mancata tutto l’anno.

Comunque l’eremita si porta un pezzo di carne alla bocca e comincia a succhiare, come fosse una radice. Forse davvero era abituato a mangiare le pigne, come dicevano le male lingue, o forse gli facevano male i denti. Fatto sta che almeno inizia, che è già qualcosa. Vedendo che sarà una cosa lunga faccio un salto dentro la torre per prendere qualcosa per i morsi del lupo.

Questa questione, dei morsi e dei tagli, era un bel problema. Non sono un cerusico, lo sapete, e non so bene cosa fare, aggiustare gli umori e quelle cose lì da uomini di scienza. Epperò mi sono ricordato di quando padre Moffati mi ha parlato di quel gran medico dell’antica Grecia, Ippocrasso, e dei suoi giuramenti, ma –

Perché mi guardate strano, sua eccellenza? Ho detto qualcosa che non va?

Certo, proseguo. Dicevo, ricordo che questo gran saggio consigliava di usare l’aceto sui tagli e le ferite, e ho pensato che se andava bene per l’antica Grecia magari va bene anche per noi, e che per fortuna mia madre ha insistito per darmi una botticella di aceto con le altre vivande. E quindi è presto detto: sono entrato e ho preso un mezzo bicchiere di aceto. Poi, visto che mi sembrava troppo forte, ci ho aggiunto un po’ d’acqua della poca che mi restava e sono tornato dall’eremita, che era ancora lì dove l’avevo lasciato, e ho provato a vedere se mi riusciva di fare qualcosa.

È stato un mestiere lungo, che non volevo disturbarlo mentre mangiava, ma non volevo neanche aspettare troppo, che aveva proprio dei brutti tagli. Il braccio che gli aveva morso il lupo era gonfio e tutto ammaccato, e il giorno dopo gli è venuta fuori tutta una bella macchia viola. Ma quello che mi preoccupava era qua sul petto, che ci aveva un gran taglio che ancora sanguinava, proprio a gocce che poi gli colavano sulla pancia e giù giù sul sesso, e poi da lì in terra, come se stesse pisciando. Perdonerete certi discorsi, vostra eccellenza, ma quella era l’impressione che mi dava. Comunque, un po’ a gesti e un po’ a parole ci capiamo, io e l’eremita, e inizio a passargli sulle ferite un panno imbevuto nell’aceto. Lui si vede che soffre e che gli brucia, ma si vede anche che ha capito che volevo aiutarlo, e ha mostrato una gran pazienza.

Ve l’ho detto, è stato un mestiere lungo: tra quello, fargli finire di mangiare la carne, e lavarlo un po’ – che non era da cristiani lasciarlo così, tutto insanguinato e sporco di terra – sarà passata almeno un’ora. L’eremita si faceva aiutare, e mi guardava sorridendo, ma non mi ha mai parlato. Cioè, quando mi parlava non capivo, che buttava fuori un mormorio senza forma o misura, fatto di parole strane e deformate, o magari anche parole vere e proprie, ma senza senso, mescolate assieme come un’insalata. “Borbiano cumbio ciofava allomato e uncrostio carcarando secchi tranfiati di sappia e quando muscecco fospiò impronato tutti zoterarono illumi”. Cose così. Ora mi è difficile dirvele, parola per parola. Però, come dire, questo è un po’ il sapore di quei suoi sproloqui.

L’eremita mi dice queste cose piano, senza fretta, mentre lo curo e lo lavo, e quando ho finito si alza, mi guarda, mi fa un gran sorriso e un cenno con la testa, e si butta di nuovo a terra, in un prato lì vicino. E lì ho capito che fare il custode è un mestiere faticoso.

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