Paolo Tolu, Bruno “Svisa” Annarratone – Alza il volume (Il sogno rock di Radio West)

La provincia è un mostro e ogni tanto qualcuno prova a prenderlo a sassate. Poi il mostro non lo uccidi, ovvio, però intanto sei diventato un eroe. Radio West è stata la sassata che ha scardinato la sonnacchiosità della cara provincia di Alessandria – almeno per un po’. Vediamo i dettagli.

E disturbiamoli questi cazzo di vicini

Intanto, disclaimer: conosco uno degli autori, Paolo Tolu, che poi è anche quello che si è smazzato la scrittura, la parte archivistica, la polvere, aggiungendo poi sue memorie e pensieri. Svisa ha avuto l’idea del libro e, a quanto mi pare di capire, è stato la principale fonte di aneddoti, di ricordi, di nostalgia. Ha scritto anche alcune parti, ma in questo genere di progetti serve uno che faccia il lavoro sporco. Ecco, Paolo è quel qualcuno, e ci conosciamo, e mi ha offerto innumerevoli milioni di euro per fargli una recensione, milioni che io ho rifiutato perché sono di buon cuore. Ma ecco, siete avvisati, non sono proprio neutrale. Ma tanto non lo è nessuno. Andiamo avanti.

Alza il volume racconta la storia di una piccola radio locale, Radio West, che dal 1982 al 1996 ha coperto di musica Alessandria e un pezzo delle campagne circostanti. Io ci sono nato, in quella zona, e mi è chiarissimo quel bel senso di oppressione che si respirava – e si respira ancora, non c’è che dire, ammirevole questa continuità delle tradizioni. Ecco, quello stesso senso di oppressione è stato il nemico contro cui un gruppo di manigoldi si è voluto alzare e dire: anche no. Anche basta. Senza spaccare le vetrine, senza dar fuoco alle macchine, ma noi ci ribelliamo.

Andiamo con ordine. Il libro si apre dal finale, dal racconto accorato dell’ultimo viaggio, quando bisogna fare l’operazione fisica di staccare una certa antenna, un certo macchinario, e uccidere definitivamente la radio. Quelle stesse frequenze, subito cannibalizzate, diventano parte di un network più grande. Chi fosse rimasto sintonizzato avrebbe sentito interrompere male, a metà strofa, questa canzone qui:

E partire quest’altra:

E in sintesi la storia è già tutta qui. Ma seguiamo la struttura narrativa scelta dagli autori, che aprono con un flash forward, volponi, e poi tornano indietro. Ci hanno detto che finirà con dolore, come nelle migliori tragedie. E adesso vediamo come ci si arriva, a quella mattina del 1996.

Una quindicina d’anni prima un gruppetto di amici decide di lasciare Alessandria e trasferirsi in California. Così, de botto, senza senso. Cioè, no, con un senso profondo: non ne potevano più. E nel 1980 per l’alessandrino medio la California è il Catai, è lo sconosciuto Kadath, è qualcosa di cui senti parlare sempre, tutti i giorni, perché allora come oggi eravamo invasi dagli Stati Uniti, ma poi in pratica è un posto inarrivabile. Ma dove vuoi andare? Ma stai bravo. E invece questi prendono e vanno per davvero, e vivono una roba così tanto da stereotipo californiano che non ci si crede: stanno a Los Angeles, fanno lavoretti, e spendono quasi tutto in dischi, concerti, musica. Il racconto sarà un po’ romanzato, o forse è lo zeitgeist di un altro tempo, ma oh, per me è stato una botta. Non ero pronto a questa iniezione di libertà. Non da dei mandrogni.

E poi, l’idea – non si capisce se benedetta o maledetta, ma comunque dirompente: tornare ad Alessandria e aprire una radio rock, indipendente, che faccia musica di qualità. Non hanno cercato di restare in California. Non hanno chiesto una green card – allora molto più accessibile di oggi. No, tornare ad Alessandria. Ci vuole un bel coraggio, non c’è che dire.

Lo fanno. Con la fatica del caso, sbattendo contro l’infinita burocrazia, la diffidenza verso il nuovo, le scarse risorse. Lo fanno e parte un’avventura. Occhio che siamo a metà degli anni Ottanta: la musica è un bene raro. Niente spotify, niente youtube, niente miliardi di canzoni sempre disponibili. Immagina questo: accendi la radio e senti un bel pezzo, una melodia che ti piace. Poi la canzone finisce e ne parte un’altra. E tu non sai chi era il cantante, la band, il titolo. Non sai niente. Torni sulla stessa radio, nei giorni successivi, sperando che la passino di nuovo, mentre il ricordo della canzone si fa sempre più vago, mentre i nuovi pezzi inesorabilmente cancellano la traccia che insegui. Bel quadro, vero? Io ho sentito per la prima volta Il Bombarolo che andavo alle medie e mi rimase molto impresso, ma non sapevo chi fosse De André. Ci ho messo anni per ritrovare il pezzo.

L’altro pezzettino di ambientazione che vorrei aggiungere è che quando parte Radio West, nel 1984, il panorama delle radio italiane è un po’ desolante. Ci sono le emittenti nazionali, ingessatissime e di servizio, e qualcosina d’altro, a spot, radio minuscole per una platea minuscola. Ma è anche un po’ un momento selvaggio, sregolato, dove un piccolo gruppo agguerrito può fare la differenza, anche partendo dal basso, quasi da zero.

Radio West parte con una missione: portare il rock ad Alessandria. Guardando le scalette l’esperienza anglofona dei fondatori si sente tutta: Rolling Stones, Wall of Voodoo, Dylan, Cream, Springsteen, AC/DC et similia. Tutti nomi stranoti, quasi banali, adesso nel 2019, ma per l’Italia degli anni Ottanta era roba da audiofili, da fini conoscitori ed instancabili esploratori delle inaccessibili classifiche straniere.

E ce la fanno. Incredibilmente, contro ogni cattivo auspicio, la radio diventa rapidamente un punto di riferimento. E ha effetti reali, tangibili: gli eventi musicali che loro pubblicizzano finiscono per fare più pubblico, attirare più gente. È la chiave di volta di una possibile indipendenza economica (il modello di business, si direbbe): rapidamente la radio non è più solo un distributore di musica, ma parte attiva nell’organizzazione di eventi. Il gruppo cresce, le ambizioni pure, e la Radio West si gode la gloria della metà ascendente della parabola.

Poi succedono, come è uso, molte cose. Non starei a riportarle tutte, se no poi non comprate il libro e Paolo vuole indietro la copia che mi ha prestato. Basti dire che è una storia ordinaria e straordinaria: crescita personale, un lutto, alterne fortune, scontri con la politica locale. Insomma, la radio ha un suo momento di massimo splendore seguito fatalmente dal declino: l’abbiamo detto in partenza, a un certo punto il sogno si interrompe. Adesso, su 96 FM ci sta radio Latte e Miele, che già dal nome non si pone come un’emittente di rottura, di quelle scomode.

Non so se sono riuscito a trasmettere il misto di emozioni che mi ha dato questo libretto. Questi qua ci hanno provato, e per un po’ ha funzionato, e per un po’ hanno portato qualcosa di diverso e di vivo in un posto che è sempre uguale e un po’ morto. Mortuccio, via. Mortarello. Anche se poi, ineluttabile, l’entropia ha fatto il suo corso. E quindi? Non era forse il caso di levare comunque le teste, di affrontare il mostro, di tirare la sassata? Ovviamente sì, certo, non scherziamo. Ma è scoraggiante. Il mostro è scoraggiante. E proprio per questo ci serve gente così. Ci servono storie così, e non solo per un facile effetto-nostalgia – pur molto popolare in questi tempi. Ci servono storie così per non farsi appiattire dalla facile rassegnazione che dice che tanto, in provincia, non succederà mai niente. Ecco, non è vero. Le cose succedono, se qualcuno ci mette la fatica.

Solite cose social:

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