Alberto Arbasino – La bella di Lodi

Ho letto questo libro perchè a) vivo a Lodi e b) Arbasino è morto da poco e il caro amico L ha cominciato a parlarne così tanto, e così bene, che o lo strozzavo (per amor suo, cioè per mandarlo a rincorrere lo scrittore che tanto amava e che tanto dolorsamente ci ha lasciati), o lo strozzavo, dicevo, o mi toccava leggere qualcosa. Ecco qua. Anzi, come dicono nel romanzo: arda.

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La bella di Lodi è una storia d’amore disillusa e brutale. Lei, Francesca, è bella, ricca, e rappresenta di un’intera categoria: i contadini benestanti. Non vorrei subito partire con una citazione però devo, che l’incipit è una bomba:

Le ragazze di Lodi, grandi, belle, con la loro pelle splendida e un appetito da uomo, quando son dritte possono essere molto più forti di quelle di Milano. Quando son dritte, oltre ai bei denti e ai begli occhi e alla gamba lunga e al capello magnifico, chiaro, hanno tanta terra, almeno un paio di migliaia di pertiche (quindici pertiche fanno un ettaro); e anche se un anno il foraggio è scarso, un altro anno il prezzo del grano è fissato un po’ troppo basso, o il riso non rende, o se arrivano tutte insieme un bel po’ di cartelle d’imposte di successione arretrate, male che vada si tratterà di rinunciare a cambiare l’Alfetta per l’estate, o di non prendersi un gattaccio nuovo per il prossimo St Moritz; ma l’attività delle centinaia di vacche e del caseificio annesso basta comunque a produrre un reddito ancora abbastanza soddisfacente.

Capitolo uno, paragrafo uno, e già si vola

Questo romanzo è ambientato in pieno boom economico. Io vivo a Lodi e posso dire che oggi, nel 2020 e a sessant’anni di distanza, di questa gente si vedono ancora le impronte dappertutto, la città è piena delle loro ditate. Le cose son cambiate e yadda yadda, eppure in filigrana c’è ancora questa stessa gente: benestante, anche di buoni studi, e attaccata alla terra. Molto, molto materiale.

E poi c’è lui, Franco, il bello. Operaio dell’ACI, parte con tutte le connotazioni da bad boy, il cattivo ragazzo proletario che fa un po’ di miseria – e non fa tanta miseria solo perché c’è il boom economico. I due si piacciono, litigano, scopano, lui la pianta, addirittura la rapina, poi non sanno starsi lontani, scopano ancora, e ancora, davvero, sembra non facciano altro. Buon per loro, direte voi. Sì, per carità, buon per loro. Ma.

Ma il rapporto è una continua tensione: lei vuole imborghesirlo, trasformarlo in qualcosa che lui non è. Lui non vuole, si vede che gli piace essere selvatico, fa un po’ di pazzie, resiste. Ma poi l’inesorabile trascorrere del tempo ha la meglio, come sempre, e tra libera miseria e comodità vincolata non c’è partita.

Il linguaggio è ai limiti del flusso di coscienza, a tratti. Dico a tratti perché questo era in origine un racconto, poi ritoccato, allungato, reimpastato. Un filo si sente, ma negli angoli, giusto a voler insistere a cercar difetti. C’è una certa disomogeneità nel linguaggio, che soprattuto nella parte iniziale è molto più “parlato”, appunto ai limiti del flusso di coscienza. Leggi e ti pare di stare ascoltando un amico che ti racconta una vicenda, ed è un piacere da sentire anche se ogni tanto si dimentica dei pezzi. Questo stile – che mi è piaciuto molto, va detto – col proseguire del romanzo si perde un po’. Resta una prosa pulitissima, ma un po’ diversa.

E poi è straordinaria la capacità di rendere un’atmosfera dai dettagli, una casa descritta attraverso i soprammobili, gli ammennicoli, i brani di discorsi sentiti da una stanza all’altra: soldi, BTP, cedole, affitti. Si parla quasi solo di soldi. Per le nozze d’oro dei nonni non abbiamo fatto nessun regalo, guarda, che tanto hanno già tutto. Abbiamo preferito pagar loro le tasse, che comunque è una bella cifra. Loro apprezzeranno di sicuro. Ecco, cose così.

E comunque il sesso arriva prorompente e soprattutto inatteso. Questo è un altro cambio di registro: per il primo terzo del romanzo non c’è stata una parolaccia, poi d’improvviso fighe e pompini. Uno resta preso in contropiede. Arda.

Solite cose social:

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